Un progetto eretico nato in sette giorni, poteva avere conclusione diversa? Undici inchieste – frutto del lavoro soprattutto notturno – potevano concludersi in maniera migliore? Effettivamente, quando dopo un esame ho pronunciato la fatidica frase «Prof., c’ho un paio di giorni vagamente liberi» non pensavo a quanto avrei sgobbato. Il peggio, con i colleghi di Eleven-Catania, abbiamo iniziato a temerlo incontrandoci davanti una stanza al secondo piano dell’ex Monastero dei Benedettini. Sì, quella sarebbe stata una settimana interminabile.
Anche questo bizzarro viaggio sembra interminabile. La parola “pazzi” è risuonata parecchie volte quando abbiamo annunciato la decisione di affrontare 800 chilometri in pullman. Ma che alternativa c’era? L’adorabile vulcano dal nome semplice quanto un codice fiscale armeno ci ha messo spalle al muro. E poi quasi nelle stesse ore il Barcellona (mica la Sancataldese!) sta facendo gli stessi chilometri e noi non saremo da meno. Certo, il nostro autobus non ha nemmeno una radio decente, il dvd ci ha detto addio già a San Gregorio e i miei modesti 163 centimetri di altezza sono sufficienti a riempire totalmente lo spazio che mi separa dal sedile del buon Daniele e compagna. Federica – ribattezzata per la durata del viaggio con un nomignolo dal sapore verghiano – è su di giri e non smette di sorridere per un attimo. Appena ha preso posto, il programma del Festival è apparso come per magia tra le sue mani.
Alla prima sosta evitiamo lo scontro tra lo sportello del vano bagagli e un Mercedes Slk; se per alcuni versi la cosa ci preoccupa un po’ («accuminciamu bonu», borbotta Desirée) per altri riceviamo l’approvazione dei nostri compagni di viaggio che si sono evitati una grana non da poco.
Subito dopo il traghetto inizia la parte peggiore. La dannazione di ogni viaggio su ruote prende forma sotto il nome di Salerno-Reggio Calabria e mi ritrovo a fissare le luci delle altre auto dal finestrino.
Mentre l’autobus sembra ballare un valzer – non sulle note di Chopin ma su quelle delle deviazioni – mi ritrovo a pensare che questa notte interminabile chiude un cerchio iniziato a gennaio. Quell’ultima notte passata a imprecare contro Youtube, word e premiere, non è mai finita. I messaggi e le mail mandate con un’ansia incredibile si sono rincorsi fino ad oggi. I caffè bevuti distrattamente alla scrivania non hanno un sapore diverso da quelli buttati giù in un autogrill. La strada macinata a piedi in una tiepida mattina passata a gironzolare tra i quartieri di “passaggio” prosegue adesso e mi porta in Umbria, a Perugia, al Festival internazionale di Giornalismo. Prima di salire sull’autobus sono passata davanti la stazione, la casa di quella Pina che qualcuno ha conosciuto grazie a Eleven. Mentre le macchine sfrecciano nervose davanti alla fermata dell’autobus mi chiedo se lei è ancora lì, la sigaretta in bocca, il maglione verde di lana…
Il sedile è scomodo, il collo è già anchilosato, saranno i due giorni più intensi della mia vita. Sono andata via riempiendo il borsone poche ore prima della partenza, come un gesto scaramantico che mi ha protetto da brutte sorprese e contrattempi.
Ritorno in quell’hotel Brufani che avevo conosciuto due anni fa, quando questo mestiere mi sembrava un po’ un’avventura, un gioco per grandi.
In due anni sono cambiate tantissime cose e giusto in questo mestiere avevo iniziato a perdere fiducia. Gli ultimi mesi passati a chiedermi se valesse la pena restare in questa città, in questa terra, in un’Italia che ti dà mille motivi per andartene urlando. Ho seriamente pensato di andar via e ci penso tutt’ora. Ma adesso, dopo una mail letta una mattina triste e nervosa di aprile, molte cose sono cambiate. Da qualche parte in questo sciagurato paese c’è qualcuno che ha visto qualcosa di buono in un gruppo di disgraziati insonni. Un’eresia, per l’appunto. Una follia che mi rende più consapevole delle capacità di chi mi sta attorno, di chi ci incoraggia e anche delle mie.
Con altre cento idee folli nella testa e la valigia sempre a portata di mano («nun si sapi mai» ripeteva spesso una donna) lascio correre la penna su un blocchetto di carta riciclata. Non voglio che le parole mi sfuggano ancora dalle dita e si perdano tra una giornata storta, una sigaretta e una corsa alle sei del mattino.
Sono passati un paio di giorni da giovedì quando, con un sorriso degno del gatto del Cheshire, abbiamo ricevuto quella bella targa con la sua custodia rossa. Fino all’ultimo minuto ci siamo detti «no, non è possibile che premino anche noi. Si saranno sbagliati e ci diranno di andar via». Con le motivazioni della giuria ancora nelle orecchie abbiamo brindato sotto un cielo azzurro a noi, ai cinque colleghi che non sono potuti venire, a chi non ha creduto in noi e a chi lo ha fatto, alle nostre notti in bianco, a quel piccolo/grande mondo che è Step1.
Il viaggio folle è terminato laddove era iniziato e il cielo grigio di Catania ci dà il benvenuto con una pioggerellina leggera. Torno a casa con la voglia di ripartire. Chissà se per andar via o se per passare qualche altra notte eretica insonne.
La parola “eresia” deriva dal greco αιρεσις, hairesis (da αιρεομαι, haireomai), che significa “afferro”, “prendo” ma anche “scelgo” (prendo una cosa in mio possesso).
Ho scelto anch’io, prendo possesso della mia vita. Non so come, non so dove, ma voglio continuare a raccontare.
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