Crisi di governo, Romano lavora per un centrodestra unito «Musumeci si impegni: anche a Roma il modello Sicilia»

«Produttività al palo, crescita zero, divisioni e disuguaglianze, odio sociale e razzismi». Saverio Romano, storico cuffariano di Sicilia, già ministro dell’Agricoltura del governo Berlusconi e fondatore del Cantiere Popolare, boccia il morituro governo gialloverde. Non le manda a dire a Matteo Salvini e nella corsa a chi, nel centrodestra elogia di più il leader del Carroccio si tira fuori. Mettendo il ministro dell’Interno davanti alle sue responsabilità.

Onorevole Romano, suona strano leggere le parole di un esponente di destra che non si scaglia esclusivamente contro i cinquestelle.
«Questo governo lo hanno fatto insieme, tanto la Lega quanto i 5 Stelle. Io sono sempre stato dell’avviso che questo esecutivo non sarebbe mai dovuto nascere, ho sempre sostenuto che il reddito di cittadinanza abbia rovinato le casse pubbliche senza dare risposte alle imprese,ai tanti che avevano bisogno di lavoro, non di un sussidio. Oggi però non faccio finta che le colpe stiano soltanto da una parte, perché penso che soltanto con la chiarezza si possa costruire».

Ferma restando, appunto, l’intenzione di costruire. Ma in che modo? Come sono conciliabili i valori di un centro moderato con la linea della Lega?
«Vede, io credo che in un sistema di coalizione ogni partito debba fare bene il proprio lavoro: la destra deve interpretare i suoi valori e il centro deve rappresentare il proprio elettorato. Poi all’interno di una stessa coalizione si trovano i punti di sintesi. Cosa diversa è invece in un sistema in cui non c’è la coalizione e ciascuno cerca di prevaricare l’altro. Dipenderà dai partiti decidere come volerla interpretare: è ovvio che chi decide di andare in compagnia non mi scandalizza, mi scandalizzerebbe andare in coalizione senza trovare una sintesi».

Intanto restano quelle «praterie centriste» più volte invocate da Musumeci in cui l’elettorato fatica a trovare un riferimento partitico.
«Io continuo a presidiare questo spazio politico e penso che dalla Sicilia debba partire la proposta di un centrodestra che metta insieme le forze che qui hanno eletto il governo della Regione».

Nel suo comunicato, però, lanciava un appello a Musumeci e Micciché affinché ritrovino le ragioni dell’unità, sottolineando che il gelo tra i due, più volte riportato dai giornali, non sia ancora cessato.
«Io ho citato Micciché e Musumeci perché hanno, oltre alle responsabilità politiche in qualità di leader delle rispettive forze partitiche, anche delle responsabilità istituzionali. E in questo senso, ovviamente, tra governo e Assemblea credo che si possa fare meglio. Io auspico che ci sia anche il modo di ragionare insieme sulla prospettiva di rilancio delle politiche per il Sud a livello nazionale».

Un tema su cui Musumeci si è espresso con chiarezza, chiedendo ai leader nazionali di non venire a cercare voti in Sicilia in assenza di una prospettiva di rilancio.
«La posizione di Musumeci è corretta. Va sostanziata con una forza d’urto politica ed elettorale che deve comprendere tutti gli attori della scena politica siciliana. Perché diversamente diventa una minaccia con le munizioni bagnate. Non basta che questa richiesta la faccia nessuno di noi singolarmente, serve una proposta corale».

Ecco, a proposito di coralità, se c’è una cosa che è mancata dalle Regionali del 2017 sono i vertici di coalizione.
«Quando nel mio comunicato parlavo di dare centralità a politica e partiti, mi riferivo proprio al fatto che considerare l’azione di governo avulsa dai partiti che lo sostengono ha oggettivamente mostrato dei limiti. Mi limito a prenderne atto. Una coalizione non discute solo di governo, ma anche di strategie, di enti locali, di politica insomma. Il mio richiamo a mettersi tutti attorno a un tavolo era proprio un invito alternativo ai personalismi che non servono a nessuno».

La linea sui migranti ma non solo: come conciliare un elettorato tradizionalmente cattolico come il vostro con un candidato premier che invoca ciclicamente la Madonna?
«I miei elettori votano me. Sono meno di quelli di Salvini, non c’è dubbio, ma ci sono. E votano me».

Non temete di essere fagocitati dalle politiche di Salvini?
«Dobbiamo fare una differenza tra classe dirigente ed elettorato. La classe dirigente quando non è solida può essere fagocitata, perché non sono isolati i casi di chi cambia partito o casacca. Ma l’elettorato è sempre solido e difficilmente negozia i propri valori. Poi, certo, può capitare che qualche deputato per opportunismo si butti. Io, in generale, sarei per ricostruire il modello siciliano a livello nazionale. Per questo chiedo alla coalizione che sostiene il governo Musumeci di fermarci un attimo, ragionare e poi tutti insieme svolgere una azione politica comune».

La Sicilia alle ultime Politiche è stata la roccaforte dei cinquestelle. Pensa che quella stagione sia conclusa?
«Il Movimento 5 stelle a mio avviso ha nei prossimi mesi una sola strada: quella di tornare al progetto primitivo, affidando il partito a Di Battista e puntando a quel 15 o 20 per cento di voto di protesta di chi un tempo non andava a votare e che oggi trova ricovero in quell’interpretazione politica. Anche perché abbiamo capito che questo Movimento ogni volta che è chiamato al governo, non soltanto del Paese ma anche degli enti locali, fallisce».

Alle ultime Europee in Sicilia Forza Italia ha doppiato il dato nazionale, raggiungendo il 17 per cento, eppure da allora ha perso pezzi importanti, come i Genovese a Messina, i Cannata a Siracusa, Pogliese a Catania. Cosa si sarebbe dovuto fare diversamente?
«Ho già polemizzato ampiamente con Gianfranco Micciché nel recente passato e non vorrei continuare adesso che invece dobbiamo ritrovare le ragioni dell’unità».

Intanto all’Ars è cambiata la geografia politica, anche attraverso l’addio al Pd di Luisa Lantieri, che alle Europee ha sostenuto proprio la sua candidatura.
«Luisa Lantieri è una mia personale amica, è cresciuta con me politicamente e sono convinto che possa ritrovare il percorso e la strada maestra. Che abbia fatto il primo passo, abbandonando il Pd, è già metà dell’opera».

Fino a qualche anno fa il concetto di «democristiano» era considerato quasi un insulto, nel senso che nell’immaginario collettivo rimandava al peggio che la Prima Repubblica aveva lasciato in eredità al Paese. Oggi ci sono i margini per un ritorno della Dc?
«Ritengo che la gente oggi stia riscoprendo alcuni valori e apprezzi i soggetti politici che dimostrano saggezza e moderazione. Se questo è un profilo che somiglia molto a quelli della Democrazia Cristiana ne sono contento. Io non credo che possa mai più rinascere un partito come la Democrazia Cristiana, ma non c’è dubbio che c’è uno spazio politico che può essere occupato da soggetti e profili politici che si rivedono nel percorso tracciato un tempo dalla Dc. Su questo bisognerà lavorare».

Miriam Di Peri

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