È tutto fermo. Non appena si entra nell’area commerciale di Misterbianco la prima impressione è quella attesa. Parcheggi deserti e porte sbarrate. Gli ultimi segni lasciati dai proprietari di ingrossi e negozi sono dei fogli appiccicati all’esterno di ogni punto vendita. Un susseguirsi di «chiuso per ferie» e «comunicazione di riposo». Il polmone economico del dragone nell’Isola è fermo. I guai per i circa cento commercianti che hanno trasformato questo pezzo di Sicilia in una enorme Chinatown sono cominciati molte settimane prima rispetto a quelli con cui stanno imparando a convivere esercenti e imprenditori italiani. In molti costretti allo stop dopo la trasformazione dell’Italia in una grande area arancione. Un Paese protetto che cerca, tra mille affanni e difficoltà, ad arginare un’epidemia chiamata coronavirus.
I cinesi di Misterbianco le loro saracinesche le hanno già abbassate a febbraio. Portatori incolpevoli di un peccato originale che ha avuto la sua genesi a >Wuhan, cittadina epicentro dell’epidemia. Il Covid-19 però si è dimostrato un virus assolutamente democratico. E così dalla paura di andare nei negozi cinesi si è passati dalla scelta di fermarsi per limitare i contagi. «Le limitazioni del governo italiano? Dovevano arrivare prima». Angela Liu ci apre le porte del suo ingrosso di scarpe sicura del fatto suo. Non è una voce isolata ma dalle sue parole, in perfetto italiano, traspare un sentimento comune: «C’era già l’esempio del nostro Paese, la Cina. Si è combattuto tanto contro il coronavirus per arrivare ai risultati di oggi». A Wuhan dopo 50 giorni l’epidemia sembrerebbe sotto controllo. In Italia, ad eccezione delle Regioni più colpite, il virus invisibile per tante settimane è stato preso sottogamba da larghe fette di popolazione. Almeno fino all’ultimo decreto del governo.
Angela non riesce a stimare quando riaprirà la sua attività. Lo stesso vale per
Mikele Gao e Chen Haiu. Entrambi imprenditori accomunati per essere i simboli dell’
associazione dei Giovani cinesi in Sicilia. Raggruppamento che conta più di cento iscritti. Un vero ponte tra Misterbianco e la Cina. Sono lontani i tempi della comunità isolata. Mikele e Chen hanno tanta voglia di aprirsi e raccontare come stanno affrontando questo momento. «A Misterbianco ci sono 130 ingrossi cinesi e 5 o 6 venditori al dettaglio – racconta Mikele -. Adesso sono quasi tutti chiusi». E paradosso dei paradossi qualche componente della comunità cinese è pure tornato a casa, lasciando temporaneamente l’Italia e l’emergenza coronavirus. «Ma adesso italiani e cinesi sono nelle stessa barca – continua – la gente finalmente ha paura di uscire e frequentare troppe persone». Solo così l’epidemia si può rallentare. Per l’imprenditore, 32 anni, l’unica ricetta è quindi quella di sposare l’invito del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Restare a casa». Quando tutto sarà finito si potrà ripensare ad aprire i negozi .
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