«Come se mi fossi svegliata da un sonno. Fino a poco tempo fa ero tra quelli che ritenevano eccessive le misure per la Sicilia». Non ha problemi ad ammettere di avere cambiato idea Loredana Gallia, commercialista catanese che nelle ultime settimane ha visto ammalarsi di Covid i genitori. La coppia, entrambi 77enni residenti a Siracusa, ha contratto il virus tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. Una scoperta fatta facendo i tamponi privatamente ma che ha portato a giorni di isolamento, senza vedere medici e con la necessità di somministrarsi le cure da soli. «Tutto ha avuto inizio il 31 ottobre – racconta la figlia – Mia madre ha avuto l’esito del tampone e trattandosi di un caso sintomatico, il medico di base le ha somministrato una terapia farmacologica. Tutto però è finito lì, nessuno si è più premurato di seguirla e capire come stesse, mentre nel frattempo le sue condizioni sono peggiorate».
A risultare positivo, poco dopo, è stato anche il marito. «Una coppia di anziani è rimasta chiusa in casa per otto giorni senza alcun aiuto», continua la figlia. Il protocollo sanitario prevede che i positivi che non hanno bisogno di cure ospedaliere vengano presi in carico dalle Unità speciali di continuità assistenziali (Usca), medici molti dei quali assunti a contratto per rafforzare la sanità dopo lo scoppio dell’epidemia. «Nessuno gli ha mai telefonato, hanno dovuto registrare autonomamente i parametri vitali e applicarsi le cure, con tutte le difficoltà dettate dalla paura della malattia e dal gap tecnologico». Una situazione assurda, se si considera che entrambi hanno patologie pregresse. «Mi sono industriata recapitando loro un saturimetro e provando a dare indicazioni tramite telefono o Whatsapp», continua la donna.
Tutto però si è ulteriormente complicato quando la madre ha iniziato a stare male. «Il peggioramento è stato improvviso, non so se sia dipeso dal fatto che ci comunicavano valori non corretti. So solo che intorno al decimo giorno di malattia abbiamo dovuto chiamare il 118». A questo punto la famiglia si è scontrata contro la situazione dei pronto soccorso e dello stress sul sistema sanitario causato dall’aumento dei contagi. «Le ambulanze erano tutte impegnate, quando se n’è liberata una – prosegue il racconto la donna – si è diretta verso l’ospedale Umberto I ma non l’hanno fatta scendere per diverse ore perché si era formata una fila di mezzi di soccorso in entrata». Al Pronto soccorso la 77enne ha trascorso due giorni – «non c’erano posti nei reparti, l’hanno curata mentre era sulla barella» -, da lì il tentativo di trovare un posto altrove. «Ho provato anche negli ospedali di Catania, ma erano tutti pieni».
Mentre la 77enne era in ospedale, pure le condizioni cliniche del marito sono peggiorate, anche se il 118 ha deciso di non trasferirlo in ospedale. «A quel punto ho chiamato i medici dell’Usca ininterrottamente, ma alla mia richiesta di fare una visita domiciliare – rivela la figlia – mi hanno risposto che gli avrebbero dato dei farmaci. Ho dovuto specificare che la terapia era stata già prescritta e non stava sortendo benefici». L’uomo è rimasto per una giornata con la febbre a 39, forti dolori al petto e alle spalle. «In queste condizioni una persona anziana, sola, con la moglie ricoverata in gravi condizioni, dovrebbe essere a mio avviso visitata», commenta la donna. Che avrebbe tentato di fare arrivare a casa i medici, sentendosi rispondere che il personale è troppo scarno per garantire un servizio di questo tipo.
Oggi i genitori della donna stanno leggermente meglio – «anche se mia madre è ancora ricoverata e ha bisogno del casco» – ma la sensazione resta quella di un sistema non capace di rispondere in maniera adeguata. «Mi chiedo come mai non ci si sia attrezzati per tempo, visto che gli esperti mettevano in guardia dalla seconda ondata», conclude.
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