Cosa nostra e quella mafia targata Fontana «Una maledizione essere in affari con questi»

Non sono certo un nome qualunque. A Palermo dire Fontana, specie in certe zone, significa una cosa sola: mafia. «Parliamo di una famiglia storica, non certo di secondo piano», come fa notare il colonnello Cosmo Virgilio, comandante del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo. Non stupisce che, malgrado le condanne, il carcere e una vita lontana dal capoluogo siciliano, insomma, il legame con Cosa nostra sia rimasto intatto. Gli arresti di ieri hanno colpito due dei figli dello storico boss della zona Acquasanta-Arenella, Stefano Fontana, morto nel 2012: il 41enne Giovanni e la 30enne Rita. Malgrado una nuova vita a Milano, le indagini condotte su di loro dimostrerebbero che forse non erano poi così lontani dall’aria di Palermo, anzi. Qui avrebbero continuato a gestire quei giri illeciti che gli avrebbero permesso di condurre una vita più agevole, lontano dagli occhi indiscreti degli investigatori. Malgrado la distanza, avrebbero continuato a esercitare un importantissimo controllo sulle attività economiche della zona, manipolandole per trarne vantaggi personali. Dalla droga all’edilizia privata, dai subappalti ai cantieri navali, dai gioielli al caffè.

«Avevano tanti interessi qui nella zona, anche a livello di società e di aziende controllate – chiarisce il colonnello Virgilio -. Periodicamente si recavano qui per riscuotere la consueta mesata, attraverso alcuni passaggi i soldi arrivavano lì a Milano, oppure tramite la sorella Rita, che scendeva appositamente e poi li portava al fratello». Cambiare città, insomma, non sempre significa anche cambiare vita. Anzi, nel caso dei fratelli Fontana sembrerebbe proprio l’escamotage perfetto per potere continuare a fare, anche in modo più tranquillo, ciò che avrebbero fatto qui, ampliando nello stesso tempo il raggio d’azione. «Il fatto di trasferirsi fuori Palermo era un modo per cercare altri mercati in cui investire, proprio a Milano per esempio avevano già aperto delle gioiellerie chiuse poche settimane fa per un sequestro di prevenzione, oltre al fatto che sicuramente il tentativo di distaccarsi era anche per cercare di dare meno nell’occhio, mantenendo sempre il controllo delle zone di provenienza – conferma ancora il colonnello -. Si spostano in aree dove possono investire ulteriori proventi dell’attività illecita, Milano era una di queste aree».

Così, pensando forse di aver messo a punto la strategia perfetta, avrebbero condotto la loro tranquilla vita di facciata. «Rita era dipendente in uno studio commerciale, tuttavia aveva un tenore di vita piuttosto elevato, infatti abbiamo trovato diversi gioielli in casa. Giovanni invece sostanzialmente era il capo riconosciuto al quale arrivavano i soldi delle mesate». Soldi che in parte sarebbero arrivati dalla consueta «riscossione a tappeto delle attività estorsive nella zona di competenza», come quelli che poi sarebbero stati, secondo gli investigatori, reinvestiti nel 2014 nella Cafè Moka Special, una cifra da capogiro che oscilla fra i 150 e i 300mila euro, per avviare una lucrosa attività di produzione e di vendita di caffè. Ma tra le idee di Giovanni Fontana ci sarebbe stata anche quella, che aveva da poco preso il via, di realizzare un nuovo impianto produttivo in zona Partanna-Mondello, qualche chilometro più in là delle zone d’appartenenza della storica famiglia. «Avevano acquistato un deposito, anche questo oggetto di riciclaggio e reinvestimento di proventi illecite in quella zona. Si stavano interessando anche di altre attività di investimento – torna a dire il finanziere -, infatti ci sono altre indagini in corso che vanno in questa direzione, ieri abbiamo sequestrato un po’ di materiale documentale che studieremo nei prossimi giorni».

Ma i due Fontana non sarebbero stati soli. Dalla loro pare potessero vantare l’appoggio di alcuni fedelissimi che operavano direttamente a Palermo. Come il 55enne Filippo Lo Bianco, investito del delicato ruolo di contabile della società, che doveva assicurarsi che i conti fossero corretti, preoccupandosi in prima persona di mantenerli ordine e di farli puntualmente arrivare ai Fontana. Ci sono anche altri due sodali dediti alla gestione del giro di soldi targati Fontana: sono Michele Ferrante, che sarebbe stato incaricato di riscuotere le mesate, e Mimmo Passarello, cognato dei Fontana, sostanzialmente due uomini a loro completa disposizione su Palermo. Infine, c’è anche Gaetano Pensavecchia, «molto più che un mero prestanome». Definirlo tale, secondo quanto emerso con le indagini, sarebbe infatti riduttivo. «Aveva piena consapevolezza delle persone con cui era in affari, della loro storia. I Fontana avevano messo diversi soldi dentro l’azienda all’inizio, quindi lui aveva anche beneficiato di questi grossi investimenti – spiega ancora il colonnello -. Poi successivamente ne restituisce una parte, continuando a restituire nel tempo una quota mensile, ed è qui che comincia a soffrire questa ingerenza».

Sì perché Pensavecchia non sarebbe solo un mero prestanome, appunto. Le indagini lo descrivono anzi come una «figura di mezzo», perfettamente a suo agio in quella famosa zona grigia dove i confini tra criminale e vittima si mescolano tra loro, confondendosi del tutto. «Lui non è né un mafioso ma neanche un estorto – puntualizza ancora Virgilio -. Capisce benissimo che non può fare a meno dei Fontana perché, come dice lui stesso intercettato, “funziona così, ogni azienda, ogni zona ha i suoi parrini, che gestiscono le attività…la maledizione del Signore è che siamo in società con questi”». Quando gli inquirenti lo sentono lamentarsi per la situazione in cui si è cacciato, non è certo la lamentela di chi vorrebbe trovare una via d’uscita dalla morsa mafiosa. «Non voleva esattamente svincolarsi, lui si dimostra ben inserito come imprenditore al servizio della mafia, agevolava gli interessi di Cosa nostra, snaturando in questo modo la libera concorrenza e l’iniziativa libera di mercato, sicuramente molti imprenditori onesti si trovavano tagliati fuori dal fatto che questi potevano usare molti investimenti di origine mafiosa, potevano imporre la loro volontà sul mercato, non pagando poi molti fornitori».

Non è un caso che il gip lo definisca «la tipica impresa mafiosa», cioè «quella che non è intranea ma neanche estorta, appunto, non un prestanome ma qualcosa di più. Uno che si presta a queste cose è perché lo vuole fare sin dall’inizio, dicono anche i pentiti. Lui non avrebbe subito quest’attività, nemmeno quando tutto era cominciato, l’avrebbe sofferta più avanti ma soltanto perché non gli permetteva di guadagnare tutto lui». Forse aveva sperato, all’inizio, di ritagliarsi forse il suo posto in mezzo a quell’enorme giro d’affari. Sottovalutando, chi lo sa, il peso di quel cognome, la storia di quella famiglia. «Io sono cresciuto respirando sin da piccolo l’aria di Cosa nostra», racconta sempre un altro fratello, Angelo Fontana. Lo chiamano u ‘mericano, per i suoi traffici di droga oltreoceano. Viene combinato dalla mafia nel 1990, ma svolge attività illecite sin dall’infanzia. Un destino forse inevitabile, anche il suo, se si pensa che fra i suoi parenti vanta nomi come quelli dei Galatolo e dei Madonia, famiglie in cui i boss non sono mancati. Solo sedici anni dopo l’inversione di marcia e l’inizio di un nuovo capitolo: quello del collaboratore di giustizia.

Silvia Buffa

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