Da circa dieci giorni ha lasciato il penitenziario di Milano-Opera ed è rientrato, agli arresti domiciliari, nella sua casa di piazza Monte Carmelo, a San Michele di Ganzaria, nel Calatino. Si tratta dell’anziano boss mafioso Francesco La Rocca, 82 anni e qualche patologia clinica, capo e inventore nel 1981 della famiglia di Cosa nostra di Caltagirone. Una storia criminale segnata dalla vicinanza alla frangia stragista dei corleonesi e al capo dei capi Totò Riina. Il suo battesimo mafioso, con l’arcaico rito di affiliazione della pungiuta, risale al lontano 1956.
«Adesso si trova sottoposto agli arresti domiciliari – spiega a MeridioNews il procuratore capo di Caltagirone Giuseppe Verzera – Confermo che è così già da alcuni giorni». Stando ad altre verifiche fatte da questa testata in ambienti investigativi, a La Rocca non è stato messo nessun braccialetto elettronico, almeno per il momento. Non è chiaro se nella decisione del tribunale di sorveglianza di Milano abbia inciso, e in che modo, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con cui, dal 21 marzo, è stato avviato il censimento dei detenuti a rischio durante l’emergenza Covid-19. Lo stesso tribunale, dopo il polverone sollevato in questi giorni per alcune scarcerazioni, ha precisato con una nota che nel caso riguardante il boss 78enne Francesco Bonura «è stata applicata la normativa ordinaria in relazione alle comprovate esigenze di salute dei detenuti». Di sicuro c’è che, in questi giorni, tra i detenuti nelle carceri c’è un grande fermento, con migliaia di loro che stanno riempiendo le cancellerie di istanze di scarcerazione.
Condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e omicidio, dopo la strage di viale Lazio del 1969, La Rocca si sarebbe fatto carico di ospitare a Caltagirone Bernardo Provenzano, rimasto ferito nel regolamento di conti e costretto, per un breve periodo, a lasciare Palermo. «Ciccio mi ha svelato questo piccolo segreto, poi confermato da Provenzano», si legge in un vecchio verbale firmato dal pentito Giovanni Brusca. Entrato nella famiglia di Caltanissetta, nel 1981, La Rocca riuscì a rendersi autonomo creando quella di Caltagirone. Vicina a Nitto Santapaola e, successivamente, al gruppo capeggiato da Alfio Mirabile. Sul boss ha raccontato diversi aneddoti anche il collaboratore di giustizia Antonino Calderone. «Dopo che toglieva la vita a qualcuno – rivelò – si trasformava in una bestia, si scatenava, prendeva a calci il morto e gridava come una belva. Le persone preferiva strangolarle per non fare rumore con la vittima che si dibatteva e assumeva un’espressione terribile».
L’allevatore diventato padrone mafioso del Calatino aveva fatto nuovamente parlare di sé qualche anno fa, nel 2016. In occasione della processione del Venerdì Santo a San Michele di Ganzaria, c’era stata una deviazione del percorso effettuato dai portatori della statua del Cristo morto per raggiungere l’abitazione in cui vive la moglie dell’anziano padrino. Secondo il procuratore di Caltagirone Verzera, sarebbe stato tutto organizzato: nel balcone, infatti, era stato esposto pure uno stendardo. Nella dinastia mafiosa, l’anziano padrino non è l’unico La Rocca. Imbrigliati nella rete della giustizia sono finiti anche i nipoti Gesualdo e Francesco Gaetano La Rocca. E i figli Francesco Gioacchino e Gianfranco. Il primo avrebbe provato a riprendere in mano le redini della famiglia mentre il secondo è stato coinvolto in un’inchiesta su mafia e appalti. Il viaggio di ritorno a casa, La Rocca, come scrive Il Fatto Quotidiano, lo avrebbe affrontato in macchina, accompagnato da un parente.
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