Dopo svariate maldestre manovre di avvicinamento, davanti l’aula III della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza, in occasione della manifestazione “Università nella notte”, siamo riusciti a strappare una veloce intervista al professor Pasquale Mallozzi, giornalista professionista (“Corriere dello Sport”) e docente a contratto nella Facoltà di Scienze della Comunicazione de La Sapienza di Roma (Sociologia della Comunicazione e Giornalismo on-line). Che altro dire di lui? Nei meandri dell’accademia è difficile incontrare docenti così disponibili e brillanti.
Cosa ne pensa della situazione in cui versa SdC?
Innanzi tutto ci sarebbe da ridiscutere il compito delle Università verso gli studenti e rispetto il mondo del lavoro. Noi non dobbiamo insegnare un mestiere, perlomeno non nella triennale; magari la specialistica ha il compito di trasmettere una professionalità più specifica, ma anche lì il mondo della comunicazione non è mai stato sintetizzabile in professionalità e capacità ben precise. Si è sempre andati avanti tramandando pratiche valide solo perché formulate sul campo dai vecchi operatori, ma ormai i tempi sono cambiati ed è necessaria una profonda riconsiderazione dei mestieri.
Ad oggi allora qual è l’utilità di questa esperienza ?
Beh dovremo senza dubbio rielaborarla alla luce delle nuove tecnologie, delle nuove professionalità emergenti e delle nuove esigenze di mercato. Nulla va perso, assolutamente, ma bisogna andare avanti.
In proposito, qual è la sua opinione riguardo le tabelle ministeriali o comunque, gli orientamenti generali che stanno alla base delle programmazioni? Ci vuole più tecnica a discapito delle materie umanistiche?
Non si possono scindere le conoscenze tecniche da quelle umanistiche. L’uomo non è una macchina e il suo sapere non è a compartimenti stagni; in comunicazione poi, la componente umanistica è indispensabile a quella tecnica e viceversa. Chi fa il giornalista, o qualsiasi altra professione di questo settore, deve avere una buona preparazione in ambedue i campi. La sfida, come dicevo prima, sta nel codificare queste nuove professionalità senza restare troppo legati alle tradizioni.
Ed il numero chiuso?
Se si considera l’Università come se fosse solo un percorso formativo professionale, teso all’immediato inserimento nel tessuto lavorativo, allora mi ritengo d’accordo. In quel caso non si potrebbe omettere di guardare unicamente agli sbocchi così da regolamentare la quantità dei laureati. Se invece si considera l’Università come un’istituzione di formazione superiore dedita solo alla cultura, allora non avrebbe alcun senso il numero chiuso perché si andrebbe a ledere il diritto allo studio.
Per fare qualsiasi delle due cose però c’è bisogno di risorse; c’è bisogno che il governo prenda delle misure chiare che consentano di investire in cultura, ricerca e formazione.
Visto che parla sia da insegnante che da giornalista professionista, mi saprebbe dire quali sono gli sbocchi lavorativi per un neo laureato?
Prima di lui risponde simpaticamente una ragazza, redattrice del giornale ufficiale della Sapienza “Menabò”, che stava lì ad ascoltare: “Non vedi? Siamo tutti qui senza lavoro, disoccupati a non far niente! Dovresti fare a noi l’intervista, non a loro!”.
Risate malinconiche da parte di tutti, e il professore risponde: “Innanzitutto bisogna quantitativamente misurare le capacità di assorbimento del mercato, cercando soprattutto di capire quali sono le figure ricercate e quali sono le capacità che si devono sviluppare. Solo allora si potrà parlare dei programmi”.
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