Per tutti è la commissione antimafia regionale. Ma, sulla carta, il suo nome lungo e complesso rispecchia le difficoltà del tema che affronta: commissione d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia. Tra le commissioni più conosciute dell’Assemblea regionale siciliana, a presiederla è Antonello Cracolici, in quota Partito democratico, di cui è tra i fondatori in Sicilia, oltre che deputato regionale dal 2001.
Della commissione si è parlato nelle scorse settimane per il mancato controllo sui candidati in corsa alle elezioni Comunali di fine maggio. Come mai?
«Beh, non è un compito della commissione regionale antimafia ma di quella nazionale, che deve verificare i requisiti morali dei candidati nei Comuni».
Solo che, in quel momento, la commissione nazionale non si era ancora insediata.
«E questo dimostra che c’è una grave sottovalutazione nazionale sul tema delle possibili infiltrazioni nelle autonomie locali. È una cosa molto grave, ma io non ho competenze né posso sostituirmi, perché la legge non me lo consente».
Neanche con un controllo, seppur non formale, sui cosiddetti impresentabili? Un po’ come noi giornalisti, insomma.
«I controlli possono essere solo formali, perché l’istruttoria viene fatta attraverso le prefetture con una modalità precisa, non si tratta di singole valutazioni, ed è chiaro che sono cose delicate, che attengono anche a diritti soggettivi, alla privacy…».
È stato chiaro. Lei ha preso il testimone della presidenza dal suo ex collega Claudio Fava. Mi sembra che lo stile di gestione della commissione sia diverso: nel vostro caso con maggiore interesse per le singole storie e i territori rispetto ai macro-temi. Mi sbaglio?
«Diciamoci la verità: per fortuna in questi anni la mafia non ha più sparato e quindi si è attenuata anche la spinta emotiva della società civile, la cultura dell’antimafia. Questo però è anche più pericoloso, perché così la mafia si infiltra nell’economia e nelle istituzioni, per questo credo che la commissione debba per lo più essere capace di tenere alta la vigilanza. Ed ecco perché abbiamo promosso una serie di incontri in tutte le prefetture siciliane, ma stiamo anche cercando di coinvolgere i sindaci, per stimolarli all’uso di strumenti di contrasto concreti. Come l’uso dei beni confiscati, da cui dipende la credibilità del successo dello Stato, perché abbiamo il dovere di rendere operativi i beni sottratti ai mafiosi e invece spesso ci sono diverse difficoltà. Detto questo, stiamo promuovendo l’unitarietà dell’azione di contrasto, a partire dalle scuole, in modo che nessuno sfugga a questo impegno civile e formativo; e poi con un protocollo d’intesa con i vescovi delle 18 arcidiocesi siciliane affinché si promuova la legalità sia con nuovi centri di aggregazione giovanile, gli oratori di un tempo, oggi da aggiornare, ma anche per uniformare i comportamenti della chiesa affinché nessuna processione si inchini più ai boss o nessun mafioso possa manifestare potere attraverso gli eventi religiosi. C’è però ancora un tema in campo…».
Quale?
«Il contrasto sul piano reputazionale. Se non isoliamo i mafiosi, se non li facciamo sentire estranei rispetto alle nostre comunità, rischiamo di avere un sistema di valori e comportamenti attrattivi anche per quella larghissima fascia di siciliani che non è né dei mafiosi né dei conniventi, ma degli indifferenti. Cioè chi, il più delle volte, preferisce girarsi dall’altro lato ritenendo che non sia un proprio problema, mentre la presenza della mafia devasta non solo l’immagine della Sicilia e la sua sicurezza, ma è anche un fattore di arretratezza economica. Per questo stiamo per far nascere l’osservatorio sui lavori pubblici e gli appalti, per definire quei protocolli di legalità che possano rendere più difficoltosa l’infiltrazione mafiosa. Ecco, lavoriamo su più fronti, oltre che sulla corruzione con tre inchieste: una sulla motorizzazione di Palermo, una sul Cas, il Consorzio autostrade siciliane, e una sul 118 e le ambulanze gestite formalmente da associazioni di volontariato ma il più delle volte controllate da personaggi appartenenti a famiglie malavitose».
Ma quali sono i poteri concreti che ha la commissione antimafia regionale?
«Essendo una commissione del parlamento regionale si basa sui poteri dello stesso. Non abbiamo quindi potere investigativo né di poter disporre dell’azione della magistratura per attività d’indagine, quindi è una commissione di studio e analisi ma che può, nello stesso tempo, intervenire con l’azione legislativa e amministrativa sollecitando anche il governo regionale. Faccio un esempio: settimane fa siamo stati ad Acate e abbiamo verificato che, pur essendo una zona con una certa presenza di criminalità legata al caporalato, il Comune non ha un sistema di videosorveglianza. Ecco, attivare strumenti amministrativi è una delle indicazioni che la commissione regionale può dare».
Lei faceva cenno alla larga fascia di indifferenti tra i siciliani. Su questo quanto ha pesato, secondo lei, la fragilità del movimento antimafia, da anni flagellato da scandali e carrierismo? L’ultimo esempio qui a Palermo proprio in una scuola, che citavamo tra i principali presidi di legalità. Deve forse aggiornarsi anche il modo di fare antimafia?
«Giovanni Falcone diceva che la mafia, come tutte le organizzazioni umane, ha un inizio e avrà una fine. Figuriamoci l’antimafia… Che è fatta da persone, alcune delle quali hanno reagito in modo anche emozionale a un certo periodo della Sicilia, unico nella storia del mondo se pensiamo che qui sono stati uccisi il presidente della Regione, il capo dell’opposizione, magistrati, prefetti, giornalisti, preti, sindacalisti, bambini e donne. Detto questo, come tutte le dimensioni umane, ci sono anche tentativi di acquisire potere, visibilità, carriera e probabilmente anche benefit economici. Ora, questo mascariamento dell’antimafia non può però far venire meno le ragioni dell’impegno. Non possiamo disilluderci perché, in Sicilia, essere neutrali significa essere dei favoreggiatori. Dobbiamo piuttosto avere la forza di non entrare in un bar quando al bancone c’è il mafioso che sta prendendo il suo caffè: è un gesto di impegno civile ed è importante che questi comportamenti si diffondano perché evidenziano l’isolamento dei mafiosi».
Lei faceva riferimento al contrasto della corruzione in diversi ambiti dell’economia, ma c’è anche nella politica. E anche da parte della politica, se penso al voto di scambio. In questo caso controllati e controllori coincidono: come si fa a intervenire su questo tema?
«Beh, noi siamo un’istituzione fatta da politici e, come in tutti i campi, non tutti sono uguali. Ognuno di noi risponde alla propria coscienza e alla propria storia. Il politico che ruba o si macchia di fenomeni di corruzione va assunto a simbolo e allontanato dalla vita istituzionale e pubblica. Le leggi ci sono, così come gli strumenti che permettono l’allontanamento già dopo una condanna di primo grado, ma certo dobbiamo essere rispettosi delle procedure. Non è che siccome qualcuno dice “Quello ha rubato”, lo mettiamo alla gogna; i luoghi per giudicare i reati rimangono i tribunali e non le commissioni o le assemblee parlamentari. Un minuto dopo che quei reati hanno acquisito una sentenza, però, la politica ha il dovere di mettere all’angolo chi si è macchiato di questi fatti».
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