C’è un vecchio film in cui Totò si aggira per il deserto, in abito da beduino. A un certo punto, dal nulla, vien fuori un gelataio con il suo trabiccolo. Totò si avvicina, chiede il prezzo del gelato, si gira trionfante verso il suo compagno di traversata ed eccolo lì, tutto contento di aver trovato un gelato nel deserto. Tanto contento che paga pure in anticipo le cento lire del gelato. Tanto contento che se lo sente già in bocca, quel gelato, prima di averlo assaporato. Anche se l’uomo che lo accompagna qualche dubbio ce l’ha.
Purtroppo, quest’uomo ha ragione. Quando Totò, dopo averlo guardato esultante, si gira di nuovo per gustare il gelato, il gelataio non c’è più. Niente di strano: siamo nel deserto. E quel gelataio non esiste, è solo un miraggio.
Fate conto, adesso, che Totò sia una parte di noi. Quella parte che vede il calcio con gli occhi del desiderio, e quando c’è di mezzo la squadra per cui fa il tifo perde di vista la realtà, che è fatta principalmente di arido denaro e di gente che lo fa girare. Quella parte che, davanti ad alcune incongruenze dell’inchiesta I treni del gol (si può sapere chi ha venduto le partite comprate dal Catania?) si è lasciata contagiare dall’italica propensione a considerare quasi perdonabili i reati confessati da Pulvirenti. Quella parte che è sempre stata disposta a tirar fuori in anticipo le cento lire del gelato, pur avendo la matematica certezza che del gelataio non ci si potesse fidare.
Totò nel deserto è, insomma, quella parte di noi che ha fin qui continuato a inseguire il miraggio che la nostra squadra, il Catania, potesse tornare a essere grande perfino per opera di quella stessa proprietà che l’ha fatta precipitare dov’è precipitata. E che magari ha scambiato per accanimento giustizialista, per malintesa intransigenza, per giacobinismo calcistico quella che era una semplice, razionale constatazione di un dato di fatto: con Pulvirenti non c’è futuro, nel deserto non esistono gelatai.
Ma sarò sincero: per quanta saccente amarezza mi strappi adesso la notizia dell’arresto di Pulvirenti e Rantuccio, credo di appartenere anch’io – diversamente e ugualmente dai miei amici tifosi di cui ho appena detto – a quanti si aggirano nel deserto. In un deserto che, stavolta, fa pensare a quello dei Tartari raccontato da Buzzati. Un deserto in cui ci si consuma nell’attesa che accada qualcosa che non accadrà mai. Per esempio che Pulvirenti venda la società, in un contesto in cui lui non ha mai avuto nessuna seria volontà di vendere e altri nessuna autentica intenzione di comprare. Per quanto almeno è dato capire di un gruppo imprenditoriale argentino, sul quale s’è scritto tutto e il contrario di tutto, che comunica le sue intenzioni finanziarie facendo un uso abbondante di siti web e social network, ma poi ci mette due mesi a risolvere un inghippo dovuto, pensate un po’, a una casella di posta elettronica.
Così – tra miraggi e inutili attese – se n’è andata più di metà di questa stagione. Che era cominciata, dopo il primo arresto di Pulvirenti, da una vittoria sul campo di Matera. E che da una seconda vittoria sul Matera sembra ora ricominciare, dopo che Pulvirenti è stato arrestato per la seconda volta.
Il timore è che ricominci uguale a prima. Senza gelatai che siano più che un miraggio. Senza epiche battaglie coi Tartari alle porte. E senza sceicchi pronti a comprare la squadra. Il timore è che, continuando così, a noi rimanga solo il deserto. E la prospettiva di una traversata che non sappiamo quanto durerà. E se porterà da qualche parte.
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