Colapesce e quell’Egomostro che è in noi Un disco contro chi ha «imbruttito questo Paese»

Quell’egomostro che c’è in noi, la critica profonda che parte da sé stessi e coinvolge l’intera società, un perfetto mix tra autobiografia e denuncia: questo è l’ultimo lavoro discografico di Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, che sul titolo scelto dice: «Ho giocato con il termine ecomostro, che indica una cosa brutta in un posto bello, coniando egomostro, cioè una cosa brutta dentro di noi». I testi sono solo velatamente criptici, tanto leggeri quanto devastanti. Il risultato è raccontare esperienze quotidiane, fare i conti con propri fantasmi, portarsi a introspezioni sofferte, riconoscere e constatare quale sia la realtà che ci circonda; il tutto avvolto da un sound morbido e profondo, ispirato, fra gli altri, dai Talking Heads e Lucio Battisti.

Tra musica e leggenda, come nasce l’artista Colapesce?
«Sono molto legato al mito di Colapesce, nelle sue molteplici versioni, soprattutto guardo con ammirazione l’aspetto del sacrificio, che reputo il fulcro della leggenda; il fatto che un giovane sia disposto a sacrificare se stesso per sorreggere la terra che ama. In un certo senso anche noi artisti scegliamo di fare una vita che comporta sacrifici, rinunciando a condurre una vita normale, spesso lasciando le nostre città d’origine per andare a vivere in grandi città più vicine al centro nevralgico dell’industria musicale; purtroppo da questo punto di vista la Sicilia è un po’ indietro».

Chi è e cosa rappresenta questo Egomostro, che dà il titolo al tuo nuovo album?
«Egomostro è un neologismo che ho coniato appositamente per il mio disco; mi serviva un termine che potesse descrivere questo periodo che stiamo vivendo, in cui l’ego della gente è posto al centro di tutto, anche a causa dei social, che hanno senz’altro amplificato tutto questo. Il disco comunque è molto autobiografico, per cui vengono sviscerate anche le brutture della mia di anima. Sono partito dal mio egomostro per poi rendermi conto strada facendo che in realtà è una malattia comune».

È per questo che come copertina hai scelto una statuetta con le tue sembianze?
«Assolutamente si, la statuetta è la rappresentanza massima dell’ego. Mi son dovuto sottoporre ad un particolare scanner in 3D che poi ha stampato questa miniatura di me, di circa 25 centimetri. Farsi fare una statua è l’apice del narcisismo. Alla fine l’ho regalata a mia madre!».

Maledetti italiani è il primo singolo, che ha anticipato l’uscita dell’album, perché ce l’hai tanto con i tuoi connazionali?
«Più che altro ce l’ho con un particolare modo di fare degli italiani, quello che ha imbruttito questo Paese. La responsabilità non è solo dei personaggi considerati negativi dalla gente, ma di tutti. L’idea espressa nella canzone è anche quella di voler azzerare tutto e ripartire, quindi non rappresenta solo una critica ma anche un buon auspicio per il futuro».

E in tutto questo i siciliani che ruolo ricoprono?
«Forse noi siciliani siamo ancora più maledetti in tal senso, ma fare Maledetti siciliani suonava male!». 

Chiara Chines

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