CLASSIC: Radio Ethiopia – Patti Smith

RADIO ETHIOPIA
Patti Smith
(1976, Arista)

E’ il dicembre del lontano 1880 quando il poeta francese Arthur Rimbaud decise di chiudere con la sua vita europea, fatta di ozio, frivolezza, e di volare in Etiopia, ad Harar. Lì, Rimbaud, cercò di sfuggire dalla noia, dal suo sentirsi “letterato addormentato”, “intellettuale inutile” e, così, decise di rimettersi in gioco: prima commerciante di avorio e caffè, poi di oro e – come qualcuno sostiene – di armi, alla fine impresario di tessuti. La storia del “poeta maledetto” e delle sue fughe dalla vita moderna furono uno spunto troppo forte perché Patti Smith, nel 1976, non lo raccogliesse per il suo secondo disco: appunto Radio Ethiopia. Perché Patti non fece mai mistero del suo debole per la poesia decadente parigina e perché anche lei è un’artista che parte dal testo poetico e dalla fuga da certe convenzioni per parlare di sé e del suo mondo: quello di una poetessa, cantante, pittrice drogata di reale, ma innamorata del fantastico.

“Radio Ethiopia” così è un vero e proprio inno all’anima inquieta dell’arte in tutte le sue espressioni, nell’omaggio di alcuni suoi “figli” e nel racconto dei suoi dolori. Oltre al sopraccitato Rimbaud, infatti, c’è la dedica allo scultore rumeno Costantin Brancusi, alla sacralità dello scrittore Allen Ginsberg e alla durezza “beat” di Jack Kerouac. E da questi Patti raccoglie certo recitato sofferente, mistico, tra punk e rito (Ain’t it strange), rock‘n’roll/boogie (Pumping my heart, Ask the angels) e ode (Pissing in a river), sacro e metropolitano. Un coacervo di elettricità tagliente e violenta, giustificata dal talento musicale di gente come Lenny Kaye con la sua Stratocaster, Ivan Kral al basso, Jay Dee Daugherty alle pelli e Richard Sohl alle tastiere. Un complesso che si esalta quando deve distendere gli oltre nove minuti di Radio Ethiopia: che dire di un pezzo che unisce in sé il chitarrismo selvaggio, velenoso e cattivo dell’Hendrix più strafatto e il cantato dolente, maniacale decantatore di Patti che s’alza in volo, poi precipita in basso, urla, piange, si dimena? L’organo disegnato da Sohl e martellato dalla violenza epica degli altri, fa sì che questo diventi probabilmente il brano migliore dell’intera discografia della Smith. Perché nel suo corpo c’è tutta la fiacchezza della fine e tutta l’energia di un leone che si ribella.

Perché è “il racconto dei desideri di morte di Rimbaud” – come definì il brano la stessa Smith – ed è un blues marcio, ubriaco, nerissimo che poi, quando pare estinguersi, continua a strisciare nella coda Abyssinia. Patti Smth con “Radio Ethiopia” entra nella storia del rock, che si chiede chi diavolo sia veramente.

Riccardo Marra

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