Ciprì e Maresco processati e assolti

Per Daniele Ciprì e Franco Maresco è stato sempre difficile fare cinema in un paese cattolico come l’Italia, trovare chi li producesse e farsi accettare dal pubblico. Dopo l’uscita di “Totò che visse due volte” i due registi subirono l’accusa di reato di vilipendio alla religione che procurò loro una impegnativa vertenza giudiziaria e una campagna di diffamazione da parte del mondo cattolico della quale subiscono ancora i postumi. Queste sono alcune delle tematiche di cui si è discusso venerdì 3 giugno nell’auditorium dell’ex monastero dei Benedettini. Nel corso dell’incontro, patrocinato dal Medialab e presentato da Davide Brusà e Davide Pappalardo, un pubblico attento seppur non eccessivamente numeroso, ha assistito alla proiezione de “La verità sul caso del Signor Cipriemaresco”, film-documentario che il regista catanese Daniele Consoli ha dedicato ai due controversi registi palermitani.

Il film è la storia di un surreale processo che vede nella parte dell’accusa una sorta di moderna inquisizione, nel ruolo degli imputati gli stessi Ciprì e Maresco, e come testimoni i critici Enrico Ghezzi e Goffredo Fofi, il filosofo Manlio Sgalambro, la regista Roberta Torre, l’attrice Donatella Finocchiaro e il produttore Rean Mazzone. Le domande che l’accusa fa ai testimoni sono un riassunto di tutte le critiche che sono state fatte ai due registi palermitani e che li hanno portati all’emarginazione dai circuiti più importanti. Le risposte, invece, non sono altro che una difesa a spada tratta di Ciprì e Maresco, nonché l’esaltazione della loro genialità. Tra un’intervista-interrogatorio e l’altra vengono inseriti spezzoni tratti dai loro film o dagli sketch di Cinico Tv con cui i due registi hanno iniziato la loro carriera. Alla fine gli imputati vengono assolti con un verdetto unanime, e anche quelle poche critiche nascondono in realtà dei giudizi positivi.

Il limite del film sta forse nel fornire una versione parziale e univoca dei fatti, una versione in cui la controparte è solo una macchietta senza spessore e credibilità, a tratti grottesca come i personaggi de due registi palermitani. Il sistema narrativo risente parecchio di questa scelta, la storia è priva di ritmo e risulta difficile mantenere vivo l’interesse per l’intera durata del film. E’ un peccato perchè spesso, soprattutto quando sono Ciprì e Maresco a parlare, le tematiche affrontate risultano di notevole interesse. Si parla del terrorismo di un’immagine che ha smesso di essere mezzo di comunicazione, del rapporto d’amore con il cinema da cui i due registi hanno imparato (dal quello a luci rosse a quello di Orson Wells), e della differenza tra il sistema produttivo europeo e quello nordamericano che i due registi dichiarano di preferire perché riesce a creare autori come Quentin Tarantino e Tim Burton che fanno cinema con la coscienza di chi li ha preceduti. Insomma, il risultato alla fine è mediocre e la cosa che colpisce di più è vedere la bocca di Enrico Ghezzi che si muove in sincrono con le parole.

Al termine della proiezione il regista e alcuni membri del cast si sottopongono alle domande del pubblico che vertono principalmente sul difficile rapporto con il sistema produttivo, sul rapporto che il regista Daniele Consoli ha con il cinema di Ciprì e Maresco e sul significato del suo film. Il regista catanese dichiara di amare i film dei registi palermitani e di aver voluto grazie al suo film denunciare l’ingiusta emarginazione di cui essi sono vittime e che ha fatto sì che il loro cinema non facesse proseliti.

Il film di Daniele Consoli, che verrà presto mandato in onda su Rai Tre in “Fuori Orario” di Ghezzi, si conclude con una frase di Daniele Ciprì : “il cinema è una merda”. Questa frase dimostra ancora una volta il controverso rapporto odio-amore che alcuni registi hanno con il cinema, lo criticano ferocemente ma continuano a farlo perché, come dice lo stesso regista palermitano: “la volontà di fare cinema è come la volontà di vivere per Schopenhauer, un peso di cui non riusciamo a liberarci”. Ma d’altronde, non c’è da stupirsi visto che gli stessi fratelli Lumiere, inventori del cinematografo, dichiararono che la loro era “un’invenzione senza futuro”.

Alberto Conti

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