«Io non ho una grande memoria». Dal 1976 possiede e dirige il più importante quotidiano catanese, La Sicilia. Da poco meno, alcuni tra in principali appalti pubblici e costruzioni private della città portano il suo nome. Compreso il noto centro commerciale Porte di Catania. Un impero economico – in parte in mano ai figli – che lo ha portato ad essere uno degli uomini più influenti dell’intera regione. Eppure Mario Ciancio Sanfilippo si presenta come un uomo d’affari qualunque, troppo preso dalla sua agenda e dai suoi continui viaggi per esercitare realmente il suo potere. O almeno così si descriveva lui stesso nel 1997 ad una delle udienze dell’allora riaperto processo per la morte del giornalista Giuseppe Fava. Chiamato a testimoniare dai magistrati sulla linea editoriale del suo giornale, anche e non solo nei confronti della criminalità organizzata, e dei suoi rapporti con gli altri imprenditori catanesi. Ieri come oggi, mentre si attende ormai tra poche settimane la scadenza delle nuove indagini a carico di Ciancio per concorso esterno in associazione mafiosa. Chiuse una prima volta con richiesta di archiviazione da parte della procura etnea e riaperte dal giudice Luigi Barone che non condivide la linea dei magistrati.
E’ il 21 marzo del 1997. Ciancio viene chiamato a testimoniare nelle aule del carcere di Bicocca. A condurre l’audizione è il sostituto procuratore Amedeo Bertone. I racconti dell’imprenditore partono dal suo rapporto con Fava: per un breve periodo cronista de La Sicilia con all’attivo una corposa inchiesta che verrà poi pubblicata nel volume Processo alla Sicilia. Argomento: la criminalità organizzata. Almeno come la si conosceva allora, specifica Ciancio. «In quell’epoca ancora la mafia era un oggetto misterioso. Certo, tutti quanti sapevamo la mafia, ma nessuno era convinto che la mafia fosse a Catania, in quei termini». Un’ignoranza sul fenomeno che rendeva anonimi anche i suoi elementi di spicco, come già allora Benedetto Santapaola. «Lei ricorda quale era stato l’atteggiamento (del quotidiano ndr) nei confronti di questo personaggio in quegli anni ovviamente?», chiede Bertone. «Fino agli anni in cui non ci fu il famoso delitto Dalla Chiesa (ucciso a Palermo il 3 settembre del 1982 ndr) nessun atteggiamento, nessun atteggiamento perché nessuno sapeva che Santapaola fosse un autorevole personaggio della mafia siciliana». Ed è proprio negli anni ’80 che diversi collaboratori di giustizia, tra cui Angelo Siino, collocano i rapporti di stima e aiuto reciproci tra la famiglia criminale etnea e Ciancio.
Altri rapporti indagati in aula nel processo sono invece quelli tra Ciancio e diversi imprenditori catanesi. Gli stessi cavalieri del lavoro di cui Fava denunciava le collusioni con la criminalità organizzata: Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo. «Credo che i rapporti che erano cordiali in precedenza si siano guastati proprio perché il giornale pubblicava tutto e forse qualcuno di aspettava di essere trattato in un modo diverso», risponde il testimone ai magistrati. Come Carmelo Costanzo, suo socio ne Il Giornale di Sicilia, una delle società editoriali di cui Ciancio aveva parte delle quote insieme alla Gazzetta del Sud. «Due partecipazioni che mirano a stabilire rapporti di cordialità tra editori che operano sullo stesso territorio», spiega. Al posto di una banale concorrenza, come succede altrove. «Niente politica e niente affari», sottolinea Ciancio. Che, dei suoi giornali, pare non curarsi troppo.
La Gazzetta del Sud, racconta, quasi non la legge. Così come Il Giornale di Sicilia. A stento sfoglia La Sicilia, di cui è anche direttore. Per questo tante cose non le ricorda, spiega. Anticipazioni giudiziarie smentite dalla procura, coperture di collaboratori di giustizia smascherate a tutta pagina, eventi che per anni hanno fatto parlare l’intera città. Lui non li ricorda, dice ai magistrati, perché «devo dirle in premessa che io ho sempre fatto il direttore, diciamo, di indirizzo, non di particolare». Secondo i suoi racconti, Ciancio si occupa di dettare la linea editoriale, «quella di fare un giornale di informazione completo, pieno, democratico spiega lui stesso – Non facciamo un giornale politico, non vogliamo né favorire, né sfavorire nessuno, non ci importa niente». «Io non leggo la cronaca nera del mio giornale ammette il direttore – Il controllo dovrebbe essere effettuato da me e lo faccio male». «Il dovrebbe in condizionale?», chiede l’avvocato della parte civile Fabio Tita nel contro-esame. «Certo, è condizionalissimo non condizionale; guardi che oggi nessuno può controllare 70 pagine di giornale, non esiste un direttore al mondo che possa controllare».
Ed è così che Ciancio spiega come vede il ruolo del direttore del principale e per molto tempo l’unico quotidiano cittadino. «Io sono il padrone del giornale, non solo il direttore, quindi mi preoccupo di mille cose ma non dei particolari». Già così la sua agenda è talmente piena che, stando ai suoi racconti, a salvare le giornate di Mario Ciancio Sanfilippo sarebbe solo il suo inguaribile buonumore. Forse rimasto invariato anche oggi, dopo il traguardo degli ottant’anni. «Io ho avuto sempre problemi nella mia vita, ne ho avuti tanti, mi hanno messo le bombe, mi hanno tagliato gli alberi in campagna, mi hanno messo le teste di capretto. Ma io sono un uomo… Sono un ottimista, io vivo col sorriso sulle labbra, avvocato».
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