«Quando ho letto quel titolo sul giornale sono stato costretto a prendere il vocabolario. Non sapevo nemmeno cosa significasse la parola abdicare». Correva l’anno 2004 e Gaetano D’Aquino, sfogliando le pagine del quotidiano La Sicilia, si imbatte nella lettera inviata dal carcere di Viterbo dal suo padrino di mafia, il boss Salvatore Cappello. Poche righe in cui trapela un messaggio per i commercianti di Catania: «Se vengono a chiedervi soldi a nome mio sappiate che io non c’entro niente. Non appartengo a nessun clan». Passati quattordici anni, quella missiva torna d’attualità nel processo in cui è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa Mario Ciancio Sanfilippo. Imprenditore, editore ed ex direttore del quotidiano cartaceo di viale Odorico da Pordenone. D’Aquino, pentito dal 2010 dopo una lunga carriera criminale, parla in video collegamento da una località riservata durante l’ultima udienza. «In realtà in quella lettera c’era un messaggio per il clan – racconta ai magistrati – perché troppa gente spendeva il suo nome per fare estorsioni». «Lei è sicuro?», gli domandano. «Sì, al cento per cento», insiste D’Aquino.
Affiliato subito dopo essere diventato maggiorenne, saltando la leva militare che gli costò una condanna per diserzione, D’Aquino si sofferma a lungo sul suo rapporto con Cappello. Prima e dopo l’arresto del boss. In prigione dagli anni delle stragi e da allora mai uscito. «Quando eravamo detenuti a Bicocca il carcere duro era solo sulla carta. Gli portavamo (a Cappello, ndr) da mangiare e veniva trattato come un detenuto comune». Ciancio? «È il direttore de La Sicilia ma non l’ho mai conosciuto», precisa D’Aquino. L’ex boss, che alle spalle vanta anche alcuni omicidi di cui giura di essersi pentito, svela però un aneddoto inedito. Uno sfogo raccolto nel 2008 dal cugino Sergio D’Aquino, collaboratore di un’azienda di affissione di proprietà dell’editore con dei trascorsi in galera per una tentata rapina risalente agli anni ’80. «Ci siamo incontrati in piazza Montessori, a Catania, e mi disse che la famiglia Santapaola era anche dentro La Sicilia con Ciancio». Parole che però, qualche minuto dopo, vengono negate dal diretto interessato, chiamato come testimone dall’accusa. Il cugino del pentito si accomoda in aula davanti la corte e giura di non avere mai pronunciato quella frase: «Con mio cugino non si parlava delle nostre cose, al massimo si andava a mangiare una pizza con i parenti».
Il nome dell’editore, l’ex boss D’Aquino lo ripete anche quando ripercorre un periodo di detenzione con Mario Strano. Affiliato del quartiere Monte Po dei Santapaola poi transitato al clan Cappello. La questione sarebbe stata sempre una lettera, ma in questo caso quella inviata e pubblicata nel 2008 su La Sicilia a firma di Vincenzo Santapaola, figlio del capomafia Nitto, all’epoca detenuto al 41bis e quindi, almeno sulla carta, impossibilitato ad avere contatti con l’esterno. «Si parlava – aggiunge il collaboratore di giustizia – e mi disse che gli Ercolano erano amici del signor Ciancio».
Sempre su questo punto insiste anche Santo La Causa. Un passato da reggente dell’ala militare dei Santapaola e dal 2012 collaboratore di giustizia. Anche lui, come D’Aquino, chiamato a testimoniare nel processo a carico dell’editore monopolista. «Quando ero latitante – spiega – mi incontravo con Pippo Ercolano alla zona industriale. Con me si lamentò di un cronista che scriveva sempre sull’Avimec (azienda di trasporti degli Ercolano, ndr) e voleva andare a parlare con i dirigenti de La Sicilia. Doveva smettere di scrivere quelle cose perché gli davano fastidio». Il nome di Ciancio, La Causa lo fa quasi alla fine. Prima c’è spazio per i racconti sul mondo dell’imprenditoria e su alcuni progetti. Tra questi il Pua lungo il litorale della Playa. Il mega progetto, mai realizzato, che doveva sorgere proprio sui terreni di Ciancio: «Era promosso da un imprenditore del Nord che faceva riferimento a un grosso gruppo».
Più complessa, e confusa, la testimonianza di Antonio Giuliano. Ex collaboratore di giustizia peloritano con un passato da imprenditore nel settore dell’edilizia. «Io ho sempre detto la verità», ripete a più riprese ai magistrati Antonino Fanara e Agata Santonocito. «Lavoravo a Messina e dovevo avere rapporti con tutti i clan», spiega. Dopo un lungo passaggio, in cui prova a mettere insieme i pezzi dei suoi rapporti con il finto pentito Luigi Sparacio e con l’imprenditore mafioso Michelangelo Alfano, Giuliano si sofferma sulla costruzione di un centro commerciale a Catania. «Si doveva fare nei terreni di un certo Ciancio, c’era anche l’imprenditore Antonello Giostra e si trattava con il gruppo Rinascente di Milano». Tra gli interessati nell’affare Giuliano cita anche «il cognato di Santapaola», ma il testimone non riesce mai a dargli un nome e cognome. «Era grosso e più basso di me», la descrizione però non convince e, quando l’avvocato di Ciancio insiste per chiedere ulteriori dettagli, Giuliano indica un uomo del servizio scorte presente in aula: «Era come quello». Nessuno riesce a trattenere le risate. Ma che ruolo aveva nell’affare l’uomo che Giuliano giura di ricordare? «Dirigeva la matassa a Catania, perché era mafiusu e si doveva pagare a lui. Abbiamo fatto tre riunioni per questa storia, in tre uffici diversi».
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