«Scrivere è cercare una casa ai propri fantasmi». Ci crede davvero Alessandro Savona, che concretizza nero su bianco questa massima nel suo ultimo romanzo, Ci sono io – Un adulto, un bambino. E un viaggio. Oppure un rapimento?, edito da Dario Flaccovio e da giovedì nelle librerie. Un libro dedicato «a tutti i bambini la cui infanzia è stata tradita dagli adulti» e che affronta il delicato tema dell’affido dei bambini negli istituti, soprattutto per le coppie omosessuali. Ma non solo. Forse ricondurre un libro del genere a un solo nudo argomento sarebbe fin troppo riduttivo. Impossibile dire «è questo o quest’altro ancora». Protagonista sono un adulto e un bambino. Il piccolo è soprannominato Pitar, in sanscrito significa «padre», mentre del primo non sappiamo nulla, o quasi. Non ne conosciamo il nome, le fattezze, le generalità spicciole. Sappiamo però della sua infanzia tormentata, del divorzio dei genitori che in qualche modo lo lascia orfano malgrado il perdono giunto con l’età adulta. Una ferita che in qualche modo lo inchioda all’essere stato quel bambino e che inevitabilmente fa di Pitar il vero adulto della storia, malgrado i suoi sette anni.
Ma anche lui ha i suoi fantasmi che lo inseguono. Si conoscono in una casa-famiglia, dove uno fa il volontario mentre l’altro ci vive, in un doloroso andirivieni dalla comunità a genitori affidatari. Il suo è un passato di violenze e miseria: è «il bambino del garage, il bambino con la madre puttana, il bambino che dormiva tra gli escrementi di cani e topi, il bambino-albergo per pidocchi, il bambino abusato dal nonno materno». L’intera storia è un parlare costante dell’adulto con Pitar, un parlare che spesso si mescola, si confonde, trasformandosi in un dialogo con se stesso. È un viaggio nel tempo, nel proprio passato, per raccontarsi al bambino o, forse, proprio a se stesso. Sono poco più di duecento pagine, ma manca la pesantezza a volte insita in uno scritto di tali proporzioni e propria dell’incedere delle parole, sostituita da una fluidità che di norma appartiene a una voce e ai suoi discorsi.
Superata la metà del romanzo, il linguaggio si fa più manifesto, più duro, come fosse il risultato di una confidenza ormai raggiunta, ampiamente guadagnata. Spariscono i giri di parole e ogni cosa prende il proprio nome. E i rapporti, soprattutto quelli fatti di carne e gemiti, sembrano quadri dal vero. Nulla scandalizza, semmai avvicina. «Voglio che tu sappia tutto di me, ti ho destinato pagine prive di un senso logico e di rigore cronologico ma che ambiscono alla verità. È giusto che io non ti risparmi neppure i dettagli più infimi del mio passato». E c’è un capitolo in particolare, quasi a metà, dal quale sembra prendere vita un libro altro, con un protagonista adesso alle prese con se stesso, che ha messo da parte fatti, episodi, aneddoti.
A condire i continui salti dal passato del protagonista al presente insieme a Pitar sono i luoghi di Palermo: c’è il Giardino inglese con le sue giostra e via Ruggero Settimo con la sua frenesia. Il traffico di piazza Indipendenza, via Basile e lo scorrimento veloce. Il Palchetto della musica di piazza Castelnuovo, la tranquillità di villa Sperlinga e la realtà difficile dello Zen. C’è spazio anche per le gite fuori porta, come quella fra le rovine di Poggioreale. Passaggi geografici scanditi dai frequenti rimandi alla letteratura greca, ai suoi miti, alle sue tragedie, ai suoi filosofi. Un romanzo che assume, infine, le sembianze di un testamento, dove i particolari si fanno più nitidi con lo scorrere delle pagine e le nebbie iniziali si diradano sempre più rapidamente. Al lettore il compito e il piacere di scoprirne il destinatario ultimo.
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