Pressioni, minacce, avvertimenti e poi finalmente la richiesta esplicita: per continuare a lavorare alla ristrutturazione di quel palazzo a Brancaccio è necessario sostenere il mantenimento delle famiglie dei detenuti e sborsare, quindi, una somma precisa. Ma l’imprenditore non ci sta e alla prima occasione denuncia tutto. Il nome del suo aguzzino non è quello di un picciotto qualunque che si cimenta nella richiesta estorsiva. NA finire dietro le sbarre questa mattina infatti è il 40enne Antonino Graviano, un parente dei più noti Graviano, tra quelli finiti uccisi o attualmente in galera. Uno che di portare quel cognome dalla storia pesante si sarebbe addirittura vantato. Lui proviene proprio da lì, da quello che – nelle parole degli inquirenti – è «lo storico gruppo mafioso egemone nel mandamento di Brancaccio». Non a caso, gli viene contestata la tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso nei confronti del titolare di un’impresa edile impegnata nella ristrutturazione di un edificio del quartiere.
Pedinamenti e intercettazioni sembrano aver fornito ai carabinieri del Ros, che lo hanno arrestato, tutte le prove necessarie. E in più occasioni, tutte documentate, gli operai del cantiere alla presenza di Antonino Graviano si sarebbero allontanati rapidamente, smettendo di lavorare, evidentemente intimiditi dalle minacce dell’uomo. Anche la perquisizione a casa sua avrebbe lasciato pochi dubbi, portando al sequestro di un revolver Smith & Wesson 357 magnum con matricola abrasa e delle munizioni, di un chilo e mezzo tra marijuana e cocaina, del materiale per confezionare la droga e della strumentazione normalmente utilizzata per la coltivazione dell’erba. Oltre a documenti di rilevanza investigativa e a una bicicletta elettrica che avrebbe utilizzato proprio per recarsi al cantiere che era diventato l’obiettivo da ricattare. Ma a sentire di un fatto simile, in un quartiere come quello e di un cognome come quello, la domanda sorge quasi spontanea.
Brancaccio non sarà di nuovo finita nelle mani della mafia? Anzi, di quella mafia, quella targata Graviano che ha armato i killer di don Pino? «No, non è più così», assicura il presidente del Centro Padre Nostro Maurizio Artale, che in questo quartiere si spende da anni per proseguire la strada tracciata da padre Puglisi. «Chi appartiene a certe famiglie difficilmente riesce a uscirne, sono miracoli – spiega – Il padre, il nonno, lo zio, la carriera è quella, c’è poco da fare. Ma Brancaccio oggi è quella dei mille ragazzi venuti da tutta Italia per ricordare la beatificazione di quel prete che dava fastidio alla mafia. Il territorio può liberarsi, ma ci riesce attraverso un percorso che è più lungo e più lento, ma solo quella è la strada. Non si può sradicare il Dna di queste famiglie, in ogni caso, è molto difficile». Insomma, il quartiere si sarebbe liberato del tutto della morsa di Cosa nostra, la dimostrazione viene anche dall’arresto di stamattina: un Graviano di oggi, come il 40enne che ora è un carcere, non si ritrova a fare i conti con la stessa Brancaccio di 30 anni fa, non trova più dei seguaci. E se prima c’erano omertà a fiumi e teste girate dall’altra parte, oggi ci sono le denunce e pochi tentennamenti.
Perché allora questi cognomi irredimibili? «Quando tu mafioso sei dentro a un cella di 20 metri quadrati, da solo, senza possibilità di fare e avere niente, privato di tutto, sei in grado di fare una revisione della tua vita e di come l’hai vissuta? – si chiede Artale -. Forse no, è come se a chi resta fuori questi che sono dentro lasciassero il testamento, come per dire “io nella sofferenza più assoluta ho resistito”, della serie se sei un Graviano devi essere così, come il nonno, il padre, lo zio, devi resistere. È una maledizione. Ma se senti il nome Graviano, cosa ti viene in mente? Come li abbiamo trattati a questi qua? Si sono sentiti accolti da uno Stato che ha teso loro la mano in vista di una vera riabilitazione? Graviano per loro è un titolo, per noi invece è al contrario, è un nome che crea sospetto, anche se in galera ci sono i tuoi familiari e non tu, quindi non ti puoi aprire un negozio, non puoi fare questo o quell’altro».
Insomma, se lo Stato è il primo a non credere nella possibile riabilitazione sociale, come può crederci un familiare che continua a vivere la sua vita fuori dal carcere? Come può pensare che ci sia un’alternativa per essere davvero qualcos’altro, anzi, qualcun altro? «Spesso ho seguito ex detenuti, che sono venuti da me perché non sono riusciti a trovare lavoro – racconta -, allora tento di coinvolgerli in un percorso di inserimento, ma intanto a questi non se li prende nessuno perché uno ha rubato, uno ha frodato, pensa se fosse uno che ha ucciso. Chi gli dà un lavoro? La nostra società non è pronta. Come mai c’abbiamo messo undici anni per fare parlare uno come Spatuzza? E Riina? Provenzano? I Graviano? Muti». Un atteggiamento che non meraviglia affatto il presidente del Centro. «Chi è che può frequentarli? Nessuno, lo Stato non permette ai volontari di avvicinarsi a loro, perché teme che possano diventare involontario strumento per fare uscire messaggi o minacce. Ma questo rischio invece andrebbe corso, altrimenti quello tomba era e tomba rimane».
La chiave insomma per recidere del tutto quei legami indissolubili con un passato e un’eredità fatta di giuramenti, codici d’onore e stragi sarebbe nel cercare un dialogo con quei padrini irredimibili. «In uno stato di segregazione totale un uomo diventerà solo più selvaggio ancora, ci vuole qualcuno che ci discuta, non che lo isoli dalla realtà. Magari è questo che gli farà mettere in discussione le sue scelte di vita. Va bene la certezza della pena ma deve esserci anche la certezza del recupero – afferma -. Se inserisci di nuovo un uomo in un sistema che funziona, o si adegua o muore, dobbiamo osare di più. Com’è che la rivincita della mafia oggi passa proprio dagli scappati? Da tutti quei nomi storici che adesso tornano in libertà, tra le braccia del popolino che li aspetta trepidanti? Aspettano il nome, perché sperano di ritornare all’era d’oro. Non sanno che non la riavranno mai».
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