Si doveva parlare della letteratura meridionale, dei giovani scrittori del sud e di quanto il loro modo di vedere il posto da cui vengono sia cambiato negli ultimi vent’anni, invece è stato un dibattito sul rapporto tra novità e tradizione letteraria quello che s’è tenuto venerdì 27 novembre presso la libreria Tertulia, in occasione della presentazione del libro di Daniela Carmosino, “Uccidiamo la luna a Marechiaro”.
Caterina Pastura e Massimo Maugeri, moderatori del dialogo, hanno conversato con la scrittrice e col pubblico, discutendo di libri e non soltanto, dando vita ad un botta e risposta che, soprattutto verso la fine, s’è fatto acceso.
Daniela Carmosino, docente presso l’Università del Molise ed editor, definisce il suo libro «un volo basso di ricognizione, con carotaggi di approfondimento». L’ossatura dell’opera risale al 1994, all’indomani del convegno di Napoli dal titolo “Narrare il Sud”: «Abbiamo invitato ciascuna delle categorie che lavorano sui libri», spiega l’autrice, tra gli organizzatori dell’evento. «Abbiamo preso lo scrittore, l’editor, l’editore, il critico militante e il critico accademico, e ne è uscita fuori una discussione controversissima. Io registravo tutto e, da quegli atti, è nato il mio lavoro, che è un po’ un reportage, un po’ qualcosa in più».
Dalla presa di coscienza che i modelli letterari sono cambiati, parte la domanda attorno alla quale ha poi ruotato il resto dell’incontro e che ha formulato, in una prima battuta, Massimo Maugeri: «Che rapporto deve avere un autore nei confronti della tradizione?»
«Negli anni ’80-’90», comincia la Carmosino «i giovani scrittori del centro-nord (citiamo il primo Ammaniti, per esempio) dicevano della tradizione: “no, ma io non la leggo”. Paventavano una certa verginità letteraria. A mio parere c’è una certa differenza tra non conoscere e disconoscere. Disconoscere è voler superare quello che c’è stato, come in un grido futurista; non conoscere… Non conoscere è ignoranza. Lo scrittore è un artigiano: se devo imparare un mestiere, perché non devo andare a capire come si sono evoluti gli strumenti della parola? La tradizione non è solo accademia, sono quelli che hanno operato con i nostri stessi ferri del mestiere prima di noi».
E’ a questo punto che si infiammano gli animi, che le risposte dal pubblico si fanno più accorate. Tea Ranno, scrittrice di Melilli trapiantata a Roma, sostiene di basarsi sulla tradizione: «Se io che sono siciliana non so cosa hanno scritto Tomasi di Lampedusa ed Elio Vittorini, che posso raccontare della mia terra? Mi fa rabbia sentir parlare di giovani scrittori che non hanno la tradizione alle spalle: cosa possono avere da dire?»
La scrittura tradizionale, i grandi della letteratura appaiono come dei mostri sacri ai quali guardare come ancore di salvezza, da preservare con timore reverenziale.
«Gadda», argomenta la Carmosino «non lo legge più nessuno. Io ne sono innamorata, ed è uno scrittore difficile. Lui diceva di non essere barocco, bensì realista. Era la realtà, sosteneva, ad essere barocca, col suo gomitolo da dipanare. Gadda è un signore della letteratura, e tanti non sanno chi sia».
A questo punto, prende la parola Ottavio Cappellani, giornalista de “Il foglio” e scrittore, con romanzi tradotti in oltre venti paesi: «Mi terrorizzate», inizia. «C’è la professoressina che sale in cattedra e parla di bella scrittura, di allenamento costante sulle parole, di necessità di recuperare le origini e poi dice che Gadda è il suo scrittore preferito, non considerando che Gadda ha cominciato a scrivere solo perché era sopravvissuto al fratello morto in guerra; poi c’è la scrittrice, la Ranno, che si crede migliore degli altri perché se n’è andata e perché dal posto dove s’è trasferita guarda dall’alto in basso la sua terra… Chi volesse fare lo scrittore, farebbe meglio a dimenticare tutto quello che s’è detto in quest’incontro».
Tra lo stupore generale, Cappellani si alza e se ne va, lasciando un pubblico che mormora per il disappunto e la teatralità dello show. Esagerato, ma d’impatto.
Poco dopo, l’incontro giunge al termine e si chiude con una battuta della Carmosino: «Il fatto che ci sia gente che passa una serata a conversare di letteratura e, addirittura, s’arrabbi per quello che si dice, non può che essere un buon segno, culturalmente, intendo».
Insomma, bene o male, l’importante è che se ne parli.
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