E dire che c’ero pure rimasto male quando due settimane fa, a Modena, l’arbitro aveva deciso – dopo aver provato un paio di volte a tuffare il pallone nelle pozze create dalla neve – che la partita non si sarebbe giocata. C’ero rimasto male perché, dopo i primi incoraggianti vagiti interni del nuovo Catania di Marcolin, attendevo con impazienza di vedere come ce la saremmo cavata lontano dal campo amico. C’ero rimasto male perché mi aspettavo che – arrivato un nuovo tecnico; partiti quasi tutti i vecchi giocatori; arrivati altrettanti giocatori nuovi, nessuno dei quali oltretutto aveva avuto Ventrone come preparatore atletico – il Catania diventasse, finalmente, la squadra che sognavo. Perché l’incauto ottimista che si annida in me era impaziente di cominciare finalmente a vivere una fiaba: la storia di Cenerentola che diventa principessa, l’apologo edificante di una vita di stenti improvvisamente capovolta, di una miseria che smette di essere una condanna e si riscatta in nobiltà. Una storia che avremmo cominciato a scrivere, appunto, da quel pomeriggio di Modena. Sfatando la maledizione della trasferta che da troppo tempo ci perseguita.
Peccato che il calcio, mannaggia a lui, non assomigli alle fiabe: solo nelle fiabe, infatti, può accadere che a trionfare siano cose come i sogni, la bellezza e i buoni sentimenti. Nel calcio invece, per vincere, serve altro: perché ciò che altrove è vizio – il cinismo, la spietatezza, la cattiveria – è invece spesso, nel gioco del pallone, la più importante delle virtù.
Pensiamo a ciò che è successo questo pomeriggio sul campo di Pescara. Alla fine del primo tempo un giocatore della squadra di casa, Pasquato, l’ha fatta proprio grossa. Si è preso dall’arbitro un’ammonizione per un fallo piuttosto veniale, e sul quale magari il direttore di gara poteva pure chiudere un occhio. Ma, anziché incassare il colpo e continuare a giocare, ha sfinito l’arbitro con proteste e sfottò, finché quest’ultimo ha messo da parte il cartellino giallo e ha tirato fuori quello rosso. Il Catania, a questo punto, si è trovato inaspettatamente a giocare con un uomo in più. Ed è andato negli spogliatoi lasciandoci pregustare una ripresa in cui avremmo fatto un sol boccone dei malcapitati avversari.
Del resto, non era forse ora che il vento girasse? Quanti nostri giocatori si sono fatti espellere, nella prima parte del campionato, per gesti non meno evitabili di quello di Pasquato? Ci siamo forse dimenticati di quanto è successo qualche mese fa sul campo di Terni, dove era stato Leto a lasciarci in dieci per togliersi il gusto di dirne quattro all’arbitro, e dove l’avversario ne aveva naturalmente, impietosamente approfittato?
Ecco, appunto: la spietatezza, la cattiveria. Il saper profittare di un’occasione vantaggiosa, poco importa se meritata o meno. Il saper tirare fuori, quando occorre, il cinismo proprio dei più perfetti bastardi. È precisamente questa la virtù che ci aspettavamo di vedere, nel secondo tempo, nel nuovo Catania di Marcolin. Sicché, quando la ripresa è cominciata, abbiamo fatto fatica a credere a quanto ci capitava sotto gli occhi. I giocatori del Pescara che correvano come indemoniati, che si infilavano nella nostra area da tutte le parti, che arrivavano pure a prendere una traversa e sfiorare il gol in un paio di altre occasioni. E i nostri che restavano lì, molli, passivi, rintontiti dall’arrembaggio degli avversari. Come se fossero questi ultimi a giocare con un uomo in più. Come se si stesse ripetendo il copione di troppe partite del girone d’andata.
Pure, con tutto questo, non c’è mancata l’occasione di vincere la partita. L’avremmo fatto se Martinho, trovatosi fortunosamente a battere a un paio di metri dalla porta, non avesse mancato goffamente il bersaglio quando il tempo era ormai scaduto. Sarebbe stata una vittoria immeritata, certo, un vero e proprio furto. Ma questi scrupoli sono, nel calcio, un lusso che non possiamo permetterci.
È passato un minuto e abbiamo pagato tutto; quando un missile scagliato dal pescarese Sansovini si è infilato nella nostra porta con una violenza tale da rimbalzare all’indietro quasi come se il pallone avesse colpito la traversa. E ci ha lasciati lì, increduli per aver perso anche stavolta, in trasferta, come è quasi sempre avvenuto quest’anno. Per avere ancora rivisto, lontano dal Massimino – e a dispetto di tutti cambiamenti che ci avevano illuso – il solito Catania di quest’anno.
La società continua a ripetere che la nostra squadra non deve preoccuparsi della salvezza, che deve mirare ai play-off. Bene. Va dato atto che, nel mercato di gennaio, qualcosa di buono è stato fatto, che la squadra oggi affidata a Marcolin sembra molto più adatta alla categoria di quella che ha fatto così male nella prima metà del campionato. Il problema è che una squadra adatta alla categoria non è abbastanza per una rincorsa come quella che continuano a prometterci. Il fatto è che, per iniziare una rimonta del genere, non basta avere una buona squadra. Ce ne vorrebbe una grande.
Se guardassi al calcio con lo spirito disinteressato, decoubertiniano, di chi si definisce uno sportivo, dovrei riconoscere, con ammirazione, che oggi, se una delle due squadre ha giocato da grande, questa è stata il Pescara. Purtroppo, però, non so smettere di pensare da tifoso. E allora posso solo confessare, con amarezza, che il Catania, oggi pomeriggio, si è un’altra volta dimostrato piccolo.
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