Cep, il quartiere oltre le apparenze e i luoghi comuni «C’è voglia di riscatto, ma fa rumore solo la violenza»

«Ogni quartiere c’ha le sue. I posti, alla fine, sono tutti uguali». Per ogni zona si potrebbero raccontare alla stessa maniera luci e ombre, secondo qualcuno. Elementi che magari non coesistono amalgamandosi in perfetta proporzione, ma facendo prevalere ora l’uno ora l’altro. A seconda dei casi, a seconda dei luoghi. Ma intanto Palermo è piena di quartieri sentiti e lasciati ai margini della città che conta, ai lembi più estremi di quei salotti che poi tanto migliori non sono. Quartieri dove a prevalere, per qualcuno che ci vive e ancora di più per chi non ci ha mai messo piede, si pensa sia sempre il marcio. Quartieri percepiti come irredimibili, da lasciare appunto fuori da ogni possibile racconto. Quartieri come il Cep, centro edilizia popolare, dove a primeggiare fra le strade larghe è soprattutto l’edilizia popolare, appunto.

In mezzo tra Cruillas e Borgo Nuovo, San Giovanni Apostolo – è questo infatti il vero nome del quartiere -, già appena arrivati offre uno scenario che sa di isolamento, di desolazione. Ma non c’è davvero nient’altro oltre quella prima impressione, oltre l’apparenza? «Io qui sto bene, ci vivo da 32 anni, è un posto come un altro», rivela un signore distinto, camicia e mocassini, che porta a spasso il cane. «Non faccio molto però, casa-lavoro, lavoro-casa, ogni tanto un giro col cane»: 32 anni insomma di vita privata che sembra sia trascorsa appartata rispetto alla vita del quartiere. Tanto che non sa neppure che il posto dove passeggia col suo cane è il giardino cittadino intitolato a Peppino Impastato, un grande spazio verde dove la riqualificazione si fa strada a fatica e dove, nei mesi scorsi, sono prima sparite alcune giostre per i bambini e poi è stata a più riprese vandalizzata la targa che ricorda il militante ucciso nel ’78 da Cosa nostra.

Ma è tutto in quelle targhe distrutte e in quei giochi rubati il Cep? «Il problema sono i ragazzini, il modo in cui stanno crescendo – azzarda un’ipotesi il distinto passante -, dietro ci sono certamente genitori che evidentemente non sanno dare il buon esempio, sono i primi a buttare le cose per strada, e ho detto tutto», facendo intendere di conoscerli molto bene, in fondo, gli usi e i costumi del luogo in cui ha scelto di vivere. Che molto ruoti attorno ai ragazzi del quartiere è quello di cui sono convinti anche attivisti e volontari che di quel territorio conoscono ogni sfumatura, prendendosene cura da tempo. A spendersi, in prima linea, da ormai 20 anni è per esempio l’associazione San Giovanni Apostolo, dal nome del quartiere stesso, che si fa carico di moltissime attività. «Il nostro scopo è l’integrazione dei vari componenti dei tessuti sociali e il recupero delle marginalità, lo facciamo innanzitutto con il supporto scolastico che è alla base di tutto – spiega Antonietta Fazio, che gestisce l’associazione -, il nostro concetto è che la delinquenza in generale e la mafia si possono combattere solo attraverso l’istruzione».

È da istruzione e formazione, quindi, che bisogna partire. Non è un caso che il centro aggregativo gestito da Antonietta Fazio si sforzi tanto di tenere in piedi reti di collaborazione con tutte le scuole della zona. Ma si punta anche allo sport, «per noi uno strumento privilegiato per l’integrazione e per un buon vivere comune – racconta ancora -. Ma ci sono anche laboratori di cittadinanza attiva, di ballo, di canto, di teatro. I ragazzi rispondono bene, il centro viene considerato “un’oasi nel deserto”, loro la definiscono così, anche perché oltre a noi, alla parrocchia e alla scuola non c’è altro». Uscire dalle maglie di questa sinergia, a volte, è un attimo. E quello che accade, in genere, non è fatto bello. Come gli ultimi episodi che hanno portato il Cep negativamente alla ribalta, quelle targhe in onore di Impastato sfregiate per due volte. «Per quegli atti vandalici la reazione qui è stata di indignazione assoluta ma anche di impossibilità a reagire», rivela la donna.

Ma che significa? «Se a fronte di un’indignazione del territorio intero non risponde una presenza continua e costante delle istituzioni proprio sul territorio, tolta la presenza sporadica fatta attraverso la passerella dell’assessore tal dei tali che non è funzionale a niente, non rimane molto – spiega -. La riqualificazione di un territorio, come anche di quella villetta, la manutenzione di una targa deve passare attraverso una programmazione e una progettazione che sia continua e duratura nel tempo, la presenza deve esserlo, perché il territorio ha bisogno di risposte concrete, reali. Qui il cittadino risponde bene ma è disilluso». In alcuni casi, forse, addirittura rassegnato a un cambiamento che non arriva mai. Senza strumenti per scrollarsi di dosso anni di luoghi comuni e di etichette, che sono qui come in tutti gli altri quartieri.

«La responsabilità di tutti gli operatori e addetti in un territorio, dalle istituzioni pubbliche a quelle private, deve essere proprio questa – torna a dire -. Ma da troppo ormai prevale il non sapere dare risposte concrete alla richiesta di supporto e accompagnamento che invece c’è da parte degli abitanti del territorio. Gli episodi sporadici di violenza, senza volerli né sminuire né mettere in secondo piano, ci sono stati e ci sono, ma sono stati condannati sempre, e isolati. Però intanto sono solo quelli che fanno sempre rumore. Ma la realtà quotidiana è altro». In un contesto in cui, quindi, la gente si sente tenuta ai margini della città, e in cui nessuno tiene per mano queste persone, da sola la loro civiltà può bastare senza avere mai occasioni concrete di riscatto? «Noi proviamo a dare delle opportunità ai ragazzi, opportunità che spesso vengono loro negate. Spesso ci riusciamo, per questo andiamo avanti, i risultati positivi ci sono, questo ci incoraggia, ci sprona».

Il centro aggregativo gestito da Antonietta Fazio, infatti, negli anni è diventato un polo, un punto di riferimento fondamentale. «Molti dei nostri educatori sono ragazzi del quartiere cresciuti con noi, in questo centro aggregativo; molti altri, ormai adulti sposati con figli, prima di rincasare spesso passano da noi a “respirare un po’ di aria pulita”, dicono così, questo è il risultato positivo del lavoro di anni, che ci rende una presenza reale nel territorio. Il nostro grido come associazione – spiega – è che le istituzioni pubbliche non ci lascino da sole, ci diano gli strumenti per aiutare gli altri, ci mettano nelle condizioni di poter fare al meglio quello che facciamo». Non tutti, però, trovano lo stesso ottimismo di chi si spende da anni per il territorio. E quella disillusione di cui parla Fazio è ben tangibile anche in chi è ancora un ragazzino. «Quella contro la targa di Impastato per me non è stata affatto una bravata, ma una cosa mirata, voluta – dice una quindicenne del quartiere -. E non c’è solo un cartello rotto, persino i giochi dei bambini, alcuni spariti. Non credo che il quartiere cambierà, onestamente il mio futuro lo vedo altrove».

Diversa l’ipotesi di un altro giovane del posto, di poco più grande, sui motivi della vandalizzazione della targa, ma il pessimismo pare lo stesso. «È stato sicuramente bello e importante riprendere quest’area verde, prima qui era pieno di spazzatura – racconta -. Per la targa…credo che sia cosa da ragazzini, sarà stato qualche 13enne. I ragazzini qui non sanno tenere le cose, rompono tutto. Certo ci sono anche cose buone, c’è anche un’altra villetta qui vicino che però ha un guardiano. Però io alla prima occasione da qui me ne voglio andare. Con questi giovanotti di oggi dove dobbiamo andare? Dovremmo sistemare loro». Loro che, in un via vai continuo di motorini a pedali e caschi rigorosamente inesistenti, sfrecciano per tutto il perimetro del giardino. Che in quella posizione privilegiata all’ingresso del quartiere quasi sembra dare il benvenuto a chi vi si avventura. Avvicinarli, però, è difficile, presi come sono dai loro giri, dai loro scherzi, dalla loro diffidenza.

Silvia Buffa

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