Catania, acquedotto benedettino in rovina «Bene nazionale, intervenga il Comune»

Alti archi, mura spesse, quattro secoli di storia alle spalle. E’ l’acquedotto benedettino catanese, esempio di idraulica a livello europeo, oggi pericolante e in stato di degrado nei diversi punti della città in cui ancora resiste. Come all’inizio di via Manzella o, in condizioni ancora peggiori, in via Caronda. «La sua importanza storica è, più che locale, europea – scrive Euplio, tecnico archeologo membro del forum cittadino di Skyscrapercity in una segnalazione al Comune di Catania – E, vista la rarità di opere idrauliche nel periodo in cui venne realizzato, le notevoli dimensioni, nonché la sua originale integrazione tra elementi architettonici idraulici di età romana, islamica ed elementi locali, potrebbe essere riconosciuto quale monumento nazionale, se non dell’Umanità». Eppure, da anni, le sue testimonianze perdono pezzi, detriti che si accumulano per la strada, pericolosi per i passanti e per lo stesso bene architettonico.

Siamo intorno al 1600 quando i monaci benedettini scoprono la timpa di Leucatia, nella zona nord della città. «Un posto perfetto, luogo di incontro tra la roccia lavica e il terreno argilloso, per rifornire di acqua il monastero di San Nicolò l’Arena, in piazza Dante – spiega Giuseppe Sperlinga, biospeleologo e docente dell’università di Catania – L’acquedotto, sofisticato per il tempo, si estende per circa sei chilometri e attraversa la città».  Dalla timpa, corre parallelo a via Leucatia, passa per il parco Gioeni, attraversa via Caronda, piazza Cavour, via Tomaselli – «Non a caso in passato chiamata via degli archi» – fino a via Plebiscito, all’altezza dell’ospedale Vittorio Emanuele. L’acqua così incanalata veniva smistata dai monaci: in parte al monastero, il resto alla città, in cambio delle spese di manutenzione a carico degli amministratori. «Più 600 onze all’anno che i benedettini riscuotevano dai privati proprietari di mulini», racconta il docente. Come quello proprio all’imbocco della timpa, oggi trasformato in una officina.

Di questi ampi tratti di archi, resistiti a quattro secoli e a terremoti devastanti, restano ancora diverse testimonianze in città. Tutte più o meno mal ridotte. «Qui in via Manzella il Comune ha addirittura incassato la targa con il nome della strada nel pilastro – scuote la testa Sperlinga – Nel tempo, queste mura centenarie sono diventate anche un tazebao per le affissioni dei vari “affittasi” e “vendesi”». «E’ uno schifo, è così da almeno tre anni», lamenta un commerciante in via Caronda, indicando i detriti degli archi che si accumulano sulla strada e i buchi che attraversano le spesse mura da parte a parte. «Abbiamo fatto diverse segnalazioni, al Comune e alla municipalità, ma non hanno fatto niente – continua – Hanno messo una transenna, i nastri e basta più». «Tuttavia in tempi brevi anonimi recidevano i nastri per portare nella via Palazzotto la transenna metallica, con evidente intento di riservare un proprio posto auto», scrive Euplio nella segnalazione all’amministrazione etnea. «Anche all’interno del parco Gioeni se ne conserva ancora un buon tratto, ma sta cadendo pietra dopo pietra», aggiunge Sperlinga.

Un pericolo per il bene architettonico e per i passanti, ma di cui nessuno sembra preoccuparsi troppo. Un intervento di messa in sicurezza che non alteri la struttura originaria ma la esalti andrebbe studiato per bene e costerebbe.  Un progetto che in via Manzella verrà in parte messo in opera nel 2013 con l’aiuto dei soci del Lions club. «L’aiuola che circonda gli archi verrà recintata – anticipa il docente – E la zona ripulita dai rifiuti con la manodopera dei militari di Sigonella e degli alunni dell’istituto tecnico regionale di via Biancavilla». Un piccolo gesto che dovrebbe incoraggiare il Comune a occuparsi del bene. «L’acquedotto è stato sempre trascurato, da tutte le amministrazioni – conclude Sperlinga – Le ultime di peggio non potevano fare».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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