Emergono nuovi particolari sul caso del paracadutista siracusano, Emanuele Scieri, ritrovato senza vita all’interno della caserma Gamerra di Pisa il 16 agosto del 1999. Dopo quasi 18 anni, «emergono risvolti incomprensibili nello svolgimento delle indagini dei carabinieri – sostiene Sofia Amoddio, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda – pesantemente inquinate dai comportamenti e dalle modalità d’investigazione, in quanto non venne attuata nessuna precauzione per evitare l’inquinamento dei luoghi e la dispersione di elementi di prova utili ad individuare il possibile colpevole».
Nel corso dell’audizione pubblica di ieri sono stati ascoltati l’appuntato scelto dei carabinieri Alessandro Pirina e il luogotenente Pierluigi Arilli, entrambi inviati sul luogo del delitto dalla stazione dei carabinieri di Pisa e dal nucleo radiomobile, non appena fu rinvenuto il cadavere dell’avvocato siracusano. «Dalle loro dichiarazioni – continua la deputata – si evince che entrambi i militari dell’arma hanno svolto indagini senza attuare le necessarie precauzioni e senza indossare idonea attrezzatura, al fine di preservare il luogo del delitto. Scopriamo solo adesso che sul luogo del delitto erano presenti circa una ventina di persone tra nucleo radiomobile dei carabinieri, stazione centrale dei carabinieri di Pisa, stazione dei carabinieri interna alla caserma dei pará e polizia militare e nessuno dei presenti ha mai indossato guanti o calzari».
Il carabiniere Pirina, che si occupava dei rilievi fotografici, «salì indisturbato e senza guanti – osserva la presidente della Commissione – sulla scala dalla quale si ipotizza fu fatto cadere Scieri, cancellando probabili tracce di impronte digitali. Inoltre – prosegue – dai rilievi fotografici di allora, si evince che un carabiniere calpestava con gli scarponi d’ordinanza il tavolo su cui era appoggiato il piede destro del parà. L’indagine di un delitto non può essere compiuta con tale superficialità dato che le prime ore dalla scoperta del cadavere sono quelle più importanti per la ricostruzione dei fatti». Indagini fatte, dunque, senza una corretta attrezzatura «in quanto – riporta la presidente – non si riteneva necessario prestare le idonee cautele, essendo la morte di Scieri stata segnalata come un caso di suicidio. Nessuno – continua – pensò di chiamare il magistrato né tantomeno il nucleo dei Ris, che avrebbe provveduto a mettere in sicurezza il luogo del delitto e avrebbe permesso di accertare una verità che qualcuno nasconde ancora oggi».
A questa incuria nelle indagini dei carabinieri, si aggiungono anche altri elementi strani e difficili da comprendere. «Pirina – riferisce la presidente Amoddio – ha detto che, come risulta da alcuni atti di indagine dell’epoca, il suo dna corrispondeva con quello rilevato da una macchia di sangue individuata sulla protezione metallica della scala su cui si ritiene che Scieri sia salito poco prima della morte. Pirina però ricorda di non essersi mai ferito durante lo svolgimento degli accertamenti e che quella macchia era già esistente quando arrivò ai piedi della torretta e fu proprio lui a fotografarla. Per le sue caratteristiche quel sangue non poteva che risalire a diverse ore prima del suo arrivo».
Per quanto riguarda il luogotenente Arilli, che nell’informativa dei carabinieri del 18 dicembre 2000 risulta aver aperto il marsupio di Lele Scieri, preso il telefonino e chiamato il proprio cellulare per constatare quale fosse il numero del parà, «adesso – precisa la deputata – confuta questa ricostruzione e sostiene che a estrarre il cellulare di Scieri dal marsupio fu il maresciallo Cataldo». Molte sono le perplessità che rimangono dopo l’audizione. «Perché – si chiede Amoddio – non venne mai disposto l’accertamento delle impronte digitali sulla scala, che ci avrebbe detto con certezza se Scieri fu costretto a salirvi? Per quale motivo non esistono verbali in cui si dice che il carabiniere Arilli o il carabiniere Cataldo presero il cellulare di Scieri o che il carabiniere Pirina si ferì sulla scala nel corso delle indagini? A chi apparteneva allora la traccia di sangue rinvenuta?».
Nel dubbio che forse una indagine svolta con criterio avrebbe potuto accertare la dinamina che ha portato alla morte del parà siracusano, continua il lavoro della commissione che ha già ascoltato vari testimoni fra cui i medici legali e il supertestimone Stefano Viberti che è l’ultima persona ad aver visto vivo Emanuele. «Il nostro obiettivo non è solo quello di trovare conferma a ciò che già gli atti processuali dicono, ovvero che si è trattato un omicidio, ma anche la speranza – conclude Amoddio – che proprio dopo tanti anni qualcuno si svuoti di un peso, che qualcuno mostri ancora dignità e dica cosa è avvenuto quella sera, perché qualcuno ha visto».
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