Caso Mered, pm interrogano ispettore Mauro «Ufficialmente non è mai stato identificato»

«Ufficialmente non è mai stato identificato». A dirlo questa mattina in aula davanti al giudice Raffaele Malizia è stato Giuseppe Mauro, ispettore della squadra mobile di Agrigento, da settimane ormai al banco dei testimoni per il processo al presunto boss della tratta di migranti Yehdego Medhanie Mered. Oggi è stato ricostruito passo passo ogni elemento investigativo che ha portato al nome del trafficante e al suo arresto in Sudan. «Dalla collaborazione con le autorità svedesi abbiamo saputo che nel settembre 2014 Lidya Tesfu aveva partorito, disse che il padre era tale Medhanie Yehdego Mered, ma non fornì alcun documento utile ai fini di un riconoscimento», spiega l’ispettore. È a questo punto che gli agenti iniziano a spulciare da cima a fondo il profilo Facebook della ragazza, individuato in precedenza grazie alle intercettazioni. «Tra i suoi contatti abbiamo trovato un certo Meda Yehdego, dal cui profilo abbiamo tratto delle fotografie».

Tra queste c’è anche quella famosa diffusa al momento dell’arresto, che lo ritrae in piedi accanto a un’automobile con una maglietta blu e un vistoso crocifisso al collo. Immagine che mostra, però, un uomo totalmente diverso da quello detenuto oggi al Pagliarelli e accusato di essere il temibile boss, che da sempre si dichiara vittima di un clamoroso scambio di persona e di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Berhe. Il cuore delle indagini, da quanto emerge dalla deposizione dell’ispettore Mauro, è l’attività di intercettazione condotta sulle presunte utenze in uso ai trafficanti. Una di queste fornita dalla polizia svedese, sulla quale le intercettazioni hanno coperto l’intervallo di tempo che va dal 25 gennaio 2016 al 12 giugno, e altre due fornite invece dall’Nci inglese, che hanno intercettato il presunto boss Mered da aprile 2016 a fine giugno. A emergere sono le modalità con cui i trafficanti organizzavano i viaggi a bordo dei barconi per raggiungere l’Europa e i metodi di pagamento a cui dovevano piegarsi i parenti dei migranti.

L’ispettore Mauro è tra quelli che il 7 giugno 2016 parte alla volta di Khartoum per l’estradizione del boss arrestato. Dopo un’attesa di quasi sette ore, il generale sudanese Ibrahim, a capo dell’operazione in Sudan, consegna l’imputato insieme a una busta con gli oggetti che aveva addosso al momento dell’arresto. Tra questi il cellulare, che il ragazzo subito riconosce come proprio, e un’agendina di piccole dimensioni di colore grigio e alcuni appunti. Oggetti che oggi il pm Geri Ferrara ha chiesto di depositare: «Tutto quello trovato in dosso alla persona al momento dell’arresto ci è stato consegnato insieme a lui», spiega il magistrato in aula. «Non sappiamo dove sono stati sequestrati questi beni, non c’è nel verbale di sequestro, a chi sono stati sequestrati? Chi ha usato questa rubrica? È stata trovata al momento della perquisizione nella sua casa, dove vivevano ben cinque persone – interviene il difensore Michele Calantropo – Non sappiamo soprattutto se è stato garantito il diritto alla difesa dell’imputato. Per questo chiedo che non siano ammessi». Il giudice non ha deciso come procedere. «La genuinità di questa prova come la devo valutare? – aggiunge l’avvocato – Se la Corte dovesse ammettere un reperto come questo, la sentenza è assolutamente inficiata».

Altro nodo cruciale è il fatto evidente che il detenuto non somigli nemmeno vagamente al volto inizialmente diffuso del vero trafficante. Persino gli agenti che lo vanno a prendere all’aeroporto di Khartoum se ne accorgono. Si fa appello alle interpreti coinvolte nelle operazioni di Glauco II: «Abbiamo fatto riascoltare le tre intercettazioni del 2016 e quelle del 2014 e hanno riconosciuto le voci come le stesse», dichiara l’ispettore Mauro in aula. Ma le intepreti non sono certo dei tecnici, oltre al fatto di non avere neppure origine eritrea. Su questo punto, poi, si è già espresso anche un perito del tribunale, che ha dichiarato che le voci non possono essere paragonate e che quindi non è possibile stabilire se si tratti della stessa persona. A fine marzo toccherà all’avvocato Calantropo sottoporre al suo controesame il teste.

Gabriele Ruggieri

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