Caso Mered, la storia punto per punto spiegata dalla difesa «Un nome è stato più importante dell’essere il trafficante»

Intercettazioni, chat, contatti, fotografie. Sono questi gli elementi che per la procura di Palermo quello in carcere dal 2016, e per il quale due settimane fa ha chiesto una condanna a quattordici anni, sarebbe uno dei più pericolosi boss della tratta di uomini, Medhanie Yehdego Mered. Elementi ai quali recentemente l’appassionata requisitoria di sei ore del pm Calogero Ferrara ha restituito passaggi, momenti, stralci. Ma anche tanti, forse troppi nodi e ingarbugliamenti, un bilancio che più che chiarire ancora confonde.Quegli stessi fatti sono stati oggi raccontati attraverso la ricostruzione fatta invece dalla difesa di quello stesso uomo in galera da tre anni, che ha sempre dichiarato non solo di essere innocente ed estraneo a qualunque tipo di traffico. Ma addirittura di essere un’altra persona, Medhanie Tesfamariam Behre. Un falegname in procinto di imbarcarsi, come migrante, alla volta dell’Europa. Quel nome, Medhanie, che ritorna e che, forse, potrebbe essere stato, in questa storia, la sfortuna più grande di chi sta dietro le sbarre.

Poca giurisprudenza, anzi, nulla. Nell’arringa dell’avvocato Michele Calantropo ci sono solo i fatti, quelli che hanno rappresentato il cuore di questo processo, messi adesso tutti in fila uno di seguito all’altro. Partendo dalla questione dell’instradamento («una procedura tecnica voluta e determinata, non casuale») e dall’inizio delle intercettazioni al trafficante. Quelle che scattano all’indomani del naufragio di Lampedusa dell’ottobre 2013. È ascoltando le conversazioni di alcuni trafficanti che salta fuori proprio quel nome, Medhanie, un collega che si vantava di non aver mai avuto problemi con le sue attività, facendosi beffa dei migranti. «Nessuno ha mai negato questo, Medhanie Yehdego Mered è un trafficante di uomini». Ma è l’uomo effettivamente arrestato? L’intero processo, sin dalle sue battute iniziali, è cominciato sotto questo paradossale interrogativo. Anche perché a quel nome le autorità di mezza Europa hanno anche dato un volto, finito dentro Glauco 2 e diffuso tra autorità e stampa. Una foto sulla quale, a processo in corso, la procura palermitana ha fatto una brusca retromarcia.

Eppure, al di là di quella stessa foto, che mostrerebbe Mered in piedi con jeans, maglietta blu e una collana al collo con una croce, c’è anche una conversazione del 14 luglio 2014. Sono le 23.31 e due uomini parlano fra loro, si scambiano commenti su un trafficante, Yehdego Mered, e lo descrivono nel dettaglio, commentando proprio quella foto che diventerà poi tanto importante: capelli lunghi leggermente ricci, un po’ di stempiatura, collana con la croce. «Praticamente ce lo dicono loro chi è Mered, perché ci raccontiamo frottole?». Dettagli su dettagli raccontati da chi con lui ha lavorato in Libia e che ritornano anche in quella foto, successivamente usata dalle autorità e da altre procure in procedimenti in cui si è anche arrivati alla condanna di alcuni trafficanti. Come quella di Seifu Haile, «non un collaboratore», come ha sottolineato nella requisitoria il pm, tentando di svilire la portata delle dichiarazioni di chi con Mered c’ha lavorato fianco a fianco.

«Onestamente credo di più a uno che si fa 14 anni e risponde alle domande dei magistrati sulla base di quello che è stato intercettato, piuttosto che a un signore sconosciuto condannato a cinque anni che ha mostrato involuzioni ed evoluzioni in base al contesto in cui si è trovato». Il riferimento dell’avvocato Calantropo è ad Atta Weabrebi Nuredin, l’unico vero collaboratore riconosciuto dall’accusa. Che ha raccontato di aver conosciuto Mered, ma a Catania nel 2014, un dettaglio secondo il legale non veritiero, poiché non esiste alcuna intercettazione, ponte radio o traccia che restituisca una sua presenza in Italia in quel periodo. «Ha mentito poi almeno due volte qui – sostiene l’avvocato oggi -. Quando ha detto che il matrimonio di Paulus, cognato dell’imputato, era stato nel 2013, mentre è stato nel 2015, lo dice il certificato di matrimonio, e quando dice di avere visto le foto di quel matrimonio sul profilo Facebook di Paulus, che però non le ha mai messe, erano su quello dell’imputato. Ha detto una serie di bugie qua, e troppi non ricordo, aveva i suoi interessi. Una sola cosa vera ha detto, che non ha idea di chi sia quell’uomo in galera».

«Yehdego Mered è l’uomo con la maglietta blu e la catenina al collo con la croce, piaccia o non piaccia – insiste – Lo dicono le intercettazioni, le foto, pure la procura di Roma». Ma intanto il 24 maggio 2016 si procede all’arresto dell’uomo oggi sotto processo. Viene preso dalla polizia sudanese mentre è in un caffè di Khartoum. «Viene arrestato, picchiato, interrogato in maniera originale direi … e portato qui, dove non sta zitto, risponde punto su punto a tutte le domande della gip. Le risposte sono veritiere, genuine, genuinità che si manifesta anche nella sua scelta di dare tutte le sue credenziali di accesso. Il peggiore dei trafficanti, che sa che le conversazioni illecite sono praticamente tutte veicolate dal telefono, lo cede così dicendo guardate pure, tanto non c’è nulla di male? E davvero non c’è nulla». Nulla sul telefono, a parte le immagini di un rito purificatore del corpo che viene scambiato dal perito dell’accusa per immagini di cannibalismo. Che, anche fossero state quello, poco avrebbero avuto a che fare coi reati contestati oggi a quest’uomo.

Nulla nei suoi contatti, nei numeri, nelle chat. Nulla nemmeno nelle intercettazioni. Di fatto, il nome Behre non esiste. Nessuno lo dice mai. E nessuno dei testimoni lo ricorda. «Non se lo ricordano perché non c’è. Ma com’è che non sono andati a controllare la prova regina, visto che il processo è iniziato affermando che l’imputato è la persona sbagliata? Il nome Yehdego ritorna sempre. Ma se non metti il patronimico (nome o cognome derivato dal nome del padre per mezzo di un suffisso, ndr) accanto al nome rischi di confondere un falegname povero con un trafficante ricco». Tanti i dubbi sollevati dall’avvocato proprio sui testimoni dell’accusa: «Ci sono persone che hanno fatto indagini su questo caso e che non sono venute a testimoniare. Da collaborazione internazionale a imbarazzo internazionale il passo è breve». E poi ci sono gli spostamenti, prima dichiarati e poi confermati anche da tabulati, celle e dati Facebook combaciano con quanto dichiarato sin dall’inizio. Un falegname partito dall’Eritrea, passato dall’Etiopia e finito a Khartoum, dove aveva raggiunto la sorella. In Libia, da dove si sarebbe dovuto imbarcare alla volta di una vita migliore, non arriverà mai. «O finisco affogato in quel mare o arrivo in Europa», diceva alla sorella in una delle tante conversazioni mai tradotte integralmente. Ma un trafficante non affoga, non muore in mare. Un trafficante rimane tranquillo sulla sua spiaggia libica a continuare i suoi affari, facendo soldi su soldi. Quelli che l’uomo in galera non sembra aver mai avuto.

«Viveva con altri quattro uomini in un tugurio, dove condividono tutto: soldi, magliette, telefono. Dobbiamo entrare dentro quel contesto – spiega l’avvocato -, a Khartoum uno straniero può essere ucciso perché ha sbagliato marciapiede. Qui i rapporti tra migranti e trafficanti sono continui, ma questo non fa dei trafficanti dei benefattori né dei migranti dei favoreggiatori. La grande pressione psicologica che i trafficanti fanno è enorme, hanno mezzi, soldi e hanno in mano la polizia. Sono andato a vedere il codice penale sudanese – spiega l’avvocato -, il traffico di uomini è punito, ma non si hanno notizie di arresti di trafficanti fatti dalla polizia sudanese, tranne quello del povero Behre. Eppure tutte le polizie ci dicono che Khartoum è il punto di raccordo dei trafficanti. Che c’è un rapporto corruttivo tra loro e la polizia non lo dico io, eppure in questo clima abbiamo arrestato questo ragazzo. A questo punto scatta il problema di chiamarsi Medhanie, che è stato più importante di essere il trafficante». E che tradotto sarebbe un comunissimo Salvatore, un nome che in Eritrea si ripete spesso. Una traduzione che svela quanto quello sia un nome comune e molto utilizzato. In altri casi altre traduzioni invece avrebbero creato storture tali da fare passare una parola per un’altra, o addirittura un nome proprio per una preposizione semplice.

«Le prove sono così schiaccianti che non mi metto a fare congetture su tutto – insiste l’avvocato -. Non c’è nessuna prova in quel cellulare. E i dati Facebook confermano la rotta che lui ha sempre dichiarato, non è mai stato in Libia. Nel suo cellulare ci sono solo chat coi suoi amici». E ancora, il metodo «non scientifico» seguito per la perizia grafologica, eseguita su un supporto diverso da quello originale – un foglio A4 invece di un’agendina – e non su tutti i numeri trovati. «In quell’agendina abbiamo contato 1876 caratteri. Il perito ne ha presi solo 70-80, a sentimento. Il numero accanto all’altro non è stato analizzato. C’erano legami? “Non ci sono, ma io li vedo”, disse. Beato lui. E intanto non esiste una laurea a Urbino in scienze neurografomotorie. In quell’agendina ci sono numeri scritti da tante mani diverse. E nessun numero di trafficanti». Nel lungo discorso anche le svariate consulenze foniche e il test del Dna, quella fatto prima alla donna che dichiarava di essere la madre dell’imputato, che ha confermato il legame tra i due. E poi quello effettuato su Lidya Tesfu, moglie di Mered, e il loro bambino, non ammesso però a processo.

«Io ho fornito nomi, indirizzi, numeri, tutto per andare ad arrestare Medhanie Yehdego Mered. Sono gli stessi che hanno anche la polizia svedese e olandese, che non possono però emettere un mandato di custodia cautelare perché Mered risulta già arrestato. Lo sanno tutti, i giornalisti che lo hanno visto e ci hanno parlato, le autorità, i famigliari – dice – In questo puzzle non c’è nulla che non quadri se non questo ragazzo. Lui nelle carte non lo troverete mai, perché non c’è. Chi ha sbagliato non è la procura, ma chi ha indagato fino al 24 maggio e ci ha consegnato una persona diversa. Il traffico di migranti è una cosa ignobile. Ma lui non è un trafficante, è solo un povero ex lattaio e falegname che nel 2016 diceva alla sorella o affogo in mare o sono in Europa. Non ha commesso nulla, per questo chiedo l’assoluzione da tutti i capi d’imputazione per non aver commesso il fatto».

Silvia Buffa

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