Caso Mered, in aula il superpentito Atta «Non lo conosco, non è lui il trafficante»

«Non l’ho mai visto in vita mia». Ne è sicuro Atta Wehabrebi Nuredin, il primo collaboratore di giustizia nella storia del traffico di migranti, che oggi in aula non ha riconosciuto il detenuto accusato di essere il boss della tratta di esseri umani Yedhego Medhanie Mered. Il collaboratore, condannato in via non definitiva per lo stesso reato, ha prima guardato una foto dell’imputato e subito dopo, spostando la tenda che ne nascondeva l’aspetto, ha potuto guardarlo anche dal vivo durante l’udienza. Ma la risposta resta la stessa: «Non lo conosco e non è la persona di cui stiamo parlando». Crede, però, di poter ricollegare l’uomo detenuto al Pagliarelli a un amico conosciuto in un centro accoglienza di Agrigento, che sarebbe tornato in Sudan nel 2013 per un matrimonio combinato: «Questo ragazzo era in una foto di quel matrimonio del mio amico, io l’ho vista su Facebook», sembra ricordare il collaboratore.

Ma ad Atta vengono mostrate anche altre foto nel corso dell’udienza, una in particolare, è la numero 12 del fascicolo depositato dalla Procura: il collaboratore insiste nel dire che l’uomo ritratto è Abdega Asghedom, un altro noto boss della tratta conosciuto nel febbraio del 2014 in un internet point di Catania. Un incontro solo, uno scambio breve di battute e poi basta. Non si incontreranno più Atta e Asghedom. Il collaboratore è certo di questo ricordo. Del boss Mered, invece, non ha molte informazioni e racconta di conoscerne il nome per la notorietà acquisita nell’ambito del traffico di esseri umani, ma di non averlo mai visto di persona: «Non l’ho mai fisicamente incontrato – dice Atta – Non posso dire se quello che si è presentato nel febbraio 2014 come Abdega Asghedom possa avere anche altri nomi, incluso questo. Ribadisco che io lo conosco solo così».

Durante l’udienza con Atta si parla anche di quanto emerso con le operazioni Glauco 1 e 2, partendo dal suo ingresso nell’organizzazione criminale: «Sono di Asmara, ma me ne sono andato a 13 anni – inizia il suo racconto – Sono stato prima in Sudan e infine a Tripoli». Qui rimane dal ’98 al 2007. Una parentesi breve,  il discorso si approfondisce subito: «L’organizzazione dei trafficanti sfrutta alcuni magazzini nelle campagne, dove tiene i migranti che vogliono imbarcarsi – continua il collaboratore – Il mio ruolo era quello di intermediario fra i prigionieri e i trafficanti con cui lavoravo a stretto contatto. Le persone venivano controllate con le armi, mentre con delle scope venivano bastonati tutti i giorni e spruzzati con un tubo d’acqua per mantenere il silenzio». Atta conferma altri elementi ormai tristemente noti: se il migrante di turno non aveva la cifra richiesta, il suo sbarco dalle coste libiche veniva ritardato fino a che i soldi non saltavano fuori.

L’unica possibilità era rivolgersi ai familiari, nella speranza che questi riuscissero a mettere insieme la cifra richiesta. E se i parenti si trovavano in qualche località dell’Europa, era possibile prendere accordi direttamente con i referenti dell’organizzazione criminale presenti sul luogo: Monaco, Parigi, Oslo, Stoccolma, Amsterdam. C’è anche l’Italia, il cui referente è stato proprio Atta, fino al momento del suo arresto. Ma per chi non riusciva a mettere insieme la somma necessaria o non aveva alcun familiare a cui rivolgersi, il destino era segnato: «Restavano nei capannoni stipati nella zona del Sinai- dice – Venivano uccisi e i loro organi venduti». Il collaboratore, che ha iniziato a parlare con gli inquirenti nell’aprile del 2015 a nove mesi dall’arresto, racconta tutto quello che sa sui trafficanti con cui ha avuto direttamente a che fare: «Ho deciso di collaborare perché ho visto troppi morti e troppa sofferenza – conclude Atta – Hanno anche isolato e minacciato la mia famiglia, che adesso si trova in Italia sotto protezione». il processo proseguirà con l’udienza di fine gennaio.

Silvia Buffa

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