Caso Mattia, la lettera di Francesca La Spada «L’Unità intensiva neonatale non è solo dolore»

La morte di un figlio è uno degli eventi più innaturali che possano esistere. Un dolore talmente profondo e lacerante che non esistono parole in grado di esprimerlo. E quando questo dolore riguarda dei genitori che ancora non sono diventati tali a tutti gli effetti, quando riguarda un bimbo che non ha avuto nemmeno il primo contatto con il mondo, allora capire perché questo sia accaduto è spesso l’unico appiglio alla vita che rimane. Il dieci per cento dei bambini nasce prematuro, le statistiche parlano chiaro, ma il mondo sembra ignorarlo, forse per paura di attirare la cattiva sorte o forse per rasserenare le donne in dolce attesa, ma la natura di tutto questo non si preoccupa, fa il suo corso.

E così, con alle spalle questa beata ignoranza, per me affrontare la prematurità è stato ancora più difficile. Mi aspettavo una bimba che dovesse soltanto crescere, un piccolissimo neonato, paffuto e sorridente… Nulla di più lontano dalla realtà. Un corpicino rinsecchito, senza grasso corporeo, ansimante, grigio, con una pelle così sottile da non tollerare il minimo contatto, ma già segnata dalle tante cicatrici che le terapie lasciano… Un giorno chiesi ad un medico: «Perché mia figlia ha due flebo?». Mi sentii rispondere: «Signora, meno male che le ha, altrimenti sarebbe all’obitorio!». Sul momento rimasi molto scossa, ma pochi giorni dopo, quando la bimba accanto a lei morì per colpa della Nec (enterocolite necrotizzante, ndr), capii cosa intendeva…

Si dice che l’esperienza si fa col tempo, ma, entrando in un reparto di terapia intensiva neonatale, impari immediatamente che tuo figlio sta lottando contro la morte, ogni minuto della sua esistenza. I medici sono chiari a riguardo, non hanno peli sulla lingua e, spesso, peccano anche in delicatezza, ma in fin dei conti, dillo come vuoi, è la pura verità: di prematurità si muore. La seconda cosa che impari, perché te lo insegna tuo figlio stesso, è che sei su un ottovolante: un giorno toccavo il cielo con un dito, me la immaginavo già tra le mie braccia, tanto che una volta son corsa a casa a sistemare la culla che, per scaramanzia, avevo aspettato a montare…, il giorno dopo l’ho trovata nuovamente intubata, grigia, con quel dannato monitor che lampeggiava continuamente e sembrava ricordarmi, semmai lo avessi dimenticato, che il suo corpicino era stanco e poteva mollare da un momento all’altro.

Erano già passati due mesi e mezzo e lei era ancora lì, in bilico tra la vita e la morte… Intanto, fuori tutti quelli che mi incontravano mi rassicuravano: «Sai il mio vicino di casa è nato prematuro, adesso è un ragazzone alto alto!»… ma a me del peso importava poco, volevo solo che respirasse! Ma loro non sapevano e non potevano capire… così abbozzavo un sorriso, con la morte nel cuore, e andavo avanti… Man mano ho iniziato ad imparare nuovi termini, soprattutto tanti acronimi che, nella maggior parte dei casi, sono le patologie che mia figlia, in quanto prematura, avrebbe potuto sviluppare (portandomi a far parte di un gruppo sempre più esiguo di fortunati), ma anche tanti termini tecnici, al punto che ho iniziato a dare spiegazioni agli altri genitori impauriti che si trovavano accanto a me dietro quel vetro.

Nonostante la drammatica situazione, ho avuto la fortuna di vivere una fase di transizione dell’Utin di Siracusa: il passaggio ad un nuovo primario che era un po’ meno restio alla marsupio-terapia. Finalmente anche io potevo fare qualcosa per mia figlia! Iniziavo a sentirmi utile, iniziavo a sentirmi mamma! Così, un pomeriggio, finalmente le porte del reparto si son aperte e sono entrata a contatto con la mia bimba, ma anche con quelle che, fino ad allora, erano solo delle sagome al fianco di mia figlia al posto mio… e dal mio angolino, tra le lacrime, ho iniziato a studiarle, a conoscerle, a capire cosa facevano, come facevano a restare tranquille quando suonava l’allarme… e mi son accorta che sono umane, che la loro tranquillità è fasulla, nascosta dietro un muro trasparente; le ho viste piangere, ridere, correre, tremare, star male, arrabbiarsi… Sono entrata a far parte di un gruppo che non sapevo nemmeno esistesse, capivo quello che dicevano, ci comprendevamo con uno sguardo… Un’esperienza che non avrei mai voluto acquisire, ma, volente o nolente, l’ho fatta.

In quei quattro mesi lì dentro, ho visto tanti bimbi arrivare e tanti andar via, chi dalla porta, chi con gli angeli, tutti trattati con la stessa cura e delicatezza, con lo stesso affetto e la stessa partecipazione, ma ognuno con la propria storia e il proprio destino. Il nostro finale è stato molto diverso, ma l’esperienza della prematurità ha lasciato in entrambe un segno indelebile. Avrei voluto esser lì per te, avrei voluto parlarti, raccontarti la mia esperienza, ascoltare i tuoi dubbi, confrontarci, farti conoscere altre mamme di cielo che avrebbero saputo parlarti e capirti meglio di me. Ma farti vedere anche quello che di bello quel reparto e quei medici fanno ogni giorno. Dirti che l’Utin non è solo dolore, ma anche speranza, conforto, sostegno. Tutto questo non è successo, ed è il mio rammarico. Tra di noi non c’è stato il tavolino di un bar, ma soltanto i media… E attraverso i media ti dico: «Quando te la senti, ti aspetto al bar».

Francesca La Spada
Segretario associazione Pi.Gi.tin (Piccoli giganti in tin) – Siracusa

Redazione

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