Caso Maniaci, i figli delle vittime della mafia Margherita Asta: «Normale porsi domande»

«Pino Maniaci? La vicenda giudiziaria deve fare il suo corso, ma da un punto di vista etico qualche domanda è lecito porsela». L’inchiesta a carico del direttore di TeleJato, accusato dalla Procura di Palermo di estorsione ai danni dei sindaci di Partinico e Borgetto, ha trovato spazio ad Acireale, dove stamattina era in programma la presentazione – organizzata da Libera – del libro di Margherita Asta Sola con te in un futuro aprile

Asta è una vittima indiretta della mafia – la madre e i fratelli morirono il 2 aprile 1985 nella strage di Pizzolungo, in provincia di Trapani, travolti dall’autobomba piazzata per uccidere il magistrato Carlo Palermo – che da 31 anni porta con sé il ricordo della violenza di Cosa nostra. Ricordo ed esperienza che a partire da metà anni Duemila ha deciso di far confluire nelle attività dell’associazione fondata da don Luigi Ciotti. Con l’obiettivo di contrastare le attività della mafia. Il tema dell’antimafia, però, proprio oggi è al centro di un dibattito che rischia di travolgere tutto e tutti, tra cocenti delusioni e il rischio di generalizzazioni. Ultima in ordine di tempo, l’indagine a carico di Maniaci. 

«Lungi da me giudicarlo, anche se forse qualcosa in più dovrebbe esserci chiarito», dichiara Asta. Il riferimento indiretto va al contenuto delle intercettazioni diffuse negli scorsi giorni, quelle nelle quali Maniaci fa riferimento all’uccisione dei propri cani come a un fatto privato e non come a un’intimidazione mafiosa. «Del resto si devono occupare i magistrati, i processi non si fanno mediaticamente – avverte -. Ciascuno di noi deve interrogarsi su quali possano essere i punti di riferimento. Partendo dal cercare di essere punto di riferimento per se stesso».

Ultimamente a essere toccata dal sospetto di aver perso di vista l’impegno sincero di contrasto alla criminalità organizzata è stata la stessa associazione di don Ciotti. Per alcuni poco attenta e reattiva nella gestione degli ultimi casi giudiziari: dalle indagini sul numero uno di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, al caso Saguto, sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A riguardo, però, la posizione di Asta è netta. «C’è chi ha parlato di Libera come una holding – commenta – ma le cooperative vicine a Libera non sono di Libera. L’associazione le accompagna nel percorso di formazione». Sui perché di queste polemiche, la tesi difensiva è quella sostenuta da molti. «Libera ha dato fastidio», assicura Asta.

Tra i presenti anche Fabrizio Famà, figlio di Serafino, l’avvocato catanese ucciso a fine 1995 dal clan mafioso etneo dei Laudani. «Non ho mai conosciuto Maniaci, ma conosco le persone che hanno lavorato con lui e lo difendono a spada tratta – racconta -. Alcuni familiari di vittime della mafia hanno preso le distanze da lui, dicendo che questo è ciò che succede quando si fa i professionisti dell’antimafia. Secondo me invece – continua – bisogna attendere prima di giudicare. Le telefonate per un attimo ti fanno arrendere, sembra indifendibile, ma io una possibilità gliela do». Poi il paragone con Ciotti. «Screditare una persona è più efficace che ammazzarla, ed è quanto è accaduto anche con don Luigi». Da parte del figlio dell’avvocato, comunque, un’accusa a chi strumentalizza l’antimafia non manca. «I professionisti dell’antimafia sono quei giornalisti che vanno nelle tv nazionali per parlare e non fare nulla. La vera antimafia si fa nelle scuole, come diceva Bufalino».

E a proposito di giornalisti, Asta commenta il caso della presentazione del libro di Salvo Riina nel salotto di Bruno Vespa. «Non censuro il figlio di Totò Riina, lui ha dimostrato di essere figlio di boss – specifica -. Stigmatizzo il comportamento del giornalista, non è accettabile che lo si faccia parlare senza un contraddittorio. Perché – chiede – non invitare e confrontare la sua storia con quella di Giovanni Impastato?». 

Simone Olivelli

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