Trent’anni. È questa la condanna che ha stabilito la giudice Rosa Alba Recupido per Luca Priolo, 26 anni, reo confesso del femminicidio della sua ex compagna Giordana Di Stefano. La giovane, uccisa con oltre 40 coltellate il 6 ottobre 2015 in via Mompeluso (nelle campagne del Comune di Nicolosi), aveva avuto con Priolo una bambina che adesso ha quasi sei anni. Una relazione complicata, quella tra i due, naufragata presto. Per la giudice per l’udienza preliminare davanti alla quale si è svolto il processo a porte chiuse adesso Priolo dovrà passare 30 anni in carcere. Il pubblico ministero Alessandro Sorrentino aveva chiesto, a giugno, l’ergastolo con isolamento diurno. Salvo poi correggersi oggi, riducendo la richiesta a trent’anni per tenere conto della riduzione di pena imposta dal rito abbreviato.
La decisione della magistrata Recupido arriva dopo che, negli ultimi mesi, c’erani state più di un’udienza fiume non prive di tensione. Di fronte all’aula al pianterreno del tribunale, pochi minuti fa, il nervosismo dovuto all’attesa della sentenza è palpabile. A giugno, del resto, l’arringa difensiva dell’avvocato Dario Riccioli e gli interventi dei legali delle parti civili avevano infiammato una vicenda di per sé delicata. Ma si chiude così, almeno in primo grado, una vicenda cominciata quasi due anni fa con un delitto che da più parti era stato considerato «annunciato». A metà di luglio si svolgerà infatti un’altra udienza che vede sul banco degli imputati Priolo: quella per l’accusa di stalking che gli era stata mossa dalla stessa Giordana Di Stefano, e la cui prima udienza si sarebbe dovuta celebrare il giorno dopo il femminicidio. Tra i comportamenti sospetti di Priolo ci sarebbe stato anche un pedinamento, con tanto di documentazione fotografica, che l’uomo avrebbe ammesso.
Il 7 ottobre del 2015 il cadavere della giovane Giordana, ballerina e mamma, era stato trovato all’interno della sua Audi A3 in una strada di periferia. La giovane era stata raggiunta da una lunga serie di colpi all’addome, al torace e alla gola. Quel giorno, la madre della vittima – Vera Squadrito, da allora in prima linea per tutelare la memoria della figlia – ne aveva denunciato la scomparsa alle forze dell’ordine: con una bimba piccola, non era usuale che lei si allontanasse senza dare notizie di sé. La ventenne, nell’ottobre 2013, aveva presentato una querela nei confronti dell’ex fidanzato: sms assillanti e appostamenti sotto casa l’avevano spinta a denunciarlo con l’accusa di stalking, dopo la fine della relazione dalla quale era nata la figlia. Proprio per l’affido esclusivo di quest’ultima i due avevano in corso una causa civile. La donna aveva presentato la richiesta, accettata dal padre in cambio del ritiro della denuncia. Priolo avrebbe voluto chiudere il procedimento per il rilascio del porto d’armi, necessario per ottenere un posto da guardia giurata al quale avrebbe aspirato.
La vicenda, però, prende una piega inaspettata proprio alla vigilia dell’udienza preliminare per gli atti persecutori denunciati da Giordana Di Stefano. Luca Priolo le chiede di incontrarsi, si vedono in serata. Il medico legale conterà sul corpo della vittima le ferite di 42 coltellate. Un femminicidio crudele e premeditato, secondo l’accusa. Dopo il delitto, Priolo fugge con l’intenzione di arrivare in Svizzera. Prima con la macchina della madre, una Chrysler Spark bianca ritrovata alla stazione di Messina, e poi con un treno diretto a Milano. È nel capoluogo lombardo che il 25enne compie il passo falso che permette alle forze dell’ordine di individuarlo. Invia un sms al padre da un cellulare chiesto in prestito a un passante: «Sono nei guai, aiutatemi e mandatemi dei soldi», è la richiesta che arriva proprio quando il genitore è interrogato dai carabinieri. Pochi minuti dopo, l’arresto e la successiva confessione. Il caso diventa subito nazionale e il clamore sui media si fa pressante. Tanto da portare l’avvocato Riccioli a chiedere lo spostamento del processo nella città dello Stretto per garantire una sentenza «non condizionata». La risposta della magistratura, però, è stata negativa. E la sentenza di condanna a trent’anni, in primo grado, è stata emessa oggi in piazza Verga.
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