Caso Fragalà, sotto la lente articoli e cronisti «Se ho scritto così, sono certo che era così»

Continua la sfilata di testimoni chiamati sul banco dalle difese dei sei imputati che devono rispondere, davanti ai giudici della prima corte d’assise, dell’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, ucciso otto anni fa. Tra questi, c’è anche il cronista di giudiziaria di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, al quale gli avvocati di parte hanno chiesto conto e ragione di alcuni articoli scritti dopo l’omicidio, in un arco di tempo piuttosto vasto. Sotto la lente dei legali finiscono dettagli e intercettazioni, anticipazioni, virgolettati e dichiarazioni, come quelle attribuite alla collaboratrice di giustizia Monica Vitale. Da dove le ha prese il giornalista? O, meglio, è sicuro di averle riportate con assoluta fedeltà? «Parliamo di un lavoro fatto con delle fonti, che è mio dovere tutelare, riscontrando anche ogni elemento, ci sono vicende che sono venute a galla anche durante processi precisi, alcuni in cui partecipò lo stesso avvocato Fragalà», risponde il cronista.

Congetture, dai titoli agli articoli veri e propri, anche rispetto ai pezzi apparsi sulla rivista mensile del giornale, S. «Lei ricopia fedelmente quanto riportato da atti giudiziari?», domanda l’avvocato Filippo Gallina, che rappresenta insieme al collega Michele Giovinco l’imputato Francesco Arcuri. Una domanda che sembra quasi spazientire il presidente di corte, Sergio Gulotta, ma che non scalfisce l’atteggiamento composto del teste. «Certo – dice subito -. Se l’ho scritto è così, è tutto fedelmente riportato, è tutto fedelmente tratto da atti giudiziari, ma è chiaro che non posso ricordare con esattezza quando li ho avuti, sempre nel rispetto delle mie fonti». Si torna addirittura indietro fino al 2011, spulciando articoli e speciali, di cui gli avvocati continuano a chiedere dettagli, per fugare i dubbi sulla possibilità o meno che i pentiti che hanno parlato di questo delitto non abbiano potuto leggere certi particolari proprio dagli articoli del cronista. Ma la risposta rimane sempre la stessa.

«Tutto passa al vaglio della professione, al di là del segreto professionale che tutela le fonti, posso garantire che tutto viene verificato, ma è chiaro che alcuni dettagli su come ho appreso certe notizie o quando rispetto a quando poi le ho riportate adesso non li ricordo. Ma vorrei ricordare invece, a prescindere dal mestiere che faccio, la brutalità di quanto accaduto quella sera». Nessuno chiede, nessuno nomina mai, però, tra avvocati e pubblico ministero, il nome di Danilo Gravagna, «uomo del pizzo, picchiatore al soldo dei boss di Porta Nuova», per dirla proprio con le parole usate da Lo Verso in un suo recente articolo. E che nel 2015 avrebbe riferito ai magistrati alcuni dettagli finora inediti sull’omicidio Fragalà.

«Dice che suo cugino Gregorio Di Giovanni detto reuccio gli ha fatto sapere che quella sera doveva chiudere prima», riferisce, raccontando una confidenza fatta da un cugino dei fratelli Tommaso e Gregorio Di Giovanni rispetto all’agenzia davanti cui fu aggredito l’avvocato. Tirando di fatto in ballo proprio quello stesso reuccio che per il pentito Chiarello sarebbe il mandante del delitto Fragalà. «E poi, mi ha pure detto che, mi ha fatto capire, non me l’ha detto esplicitamente…che non dovevano ucciderlo questo avvocato. Non era un…diciamo, una spedizione per ucciderlo, ma solo per punirlo…Lo dovevano punire, ecco. E se forse, io deduco da quello che mi ha detto lui, che questo avvocato forse s’intrometteva in discorsi che non gli…che non gli appartenevano». Dichiarazioni finite di recente anche nelle carte dell’ultima imponente operazione antimafia, Cupola 2.0, che ha colpito i principali mandamenti di Palermo e provincia. Ma che ancora non sono entrate, di fatto, all’interno del processo in corso in corte d’assise. E nessuno, fino ad oggi, sembra avere intenzione di vederci chiaro rispetto a questi nuovi dettagli. 

Silvia Buffa

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