«Può essere che lo sbobinamento delle intercettazioni non è stato integrale e il lecito lo vogliamo fare diventare illecito?». Se lo chiede, Antonino Abbate. Se lo chiede ad alta voce, rivolgendosi alla prima corte d’assise di Palermo, dove si celebra il processo per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà e per il quale proprio Abbate è imputato, insieme ad altri cinque. Un dubbio che gli sorge e che non nasconde, incalzato dalle domande della pm Francesca Mazzocco, che sollecita i ricordi sbiaditi di otto anni prima leggendo in aula stralci di conversazioni tra lui e altri imputati del processo. Come quelle captate la sera della brutale aggressione al penalista, il 23 febbraio del 2010. «Si è accordato con Antonino Siragusa – imputato anche lui per il delitto – per incontravi quella sera, alle otto meno cinque. Perché a quell’orario specifico? Cosa dovevate fare?», chiede più volte il pubblico ministero. Ma Abbate non ha molto da dire: «Non lo so, non mi ricordo nemmeno dov’ero, forse a casa, sono passati otto anni. Non ricordo se quel giorno l’ho contattato, con lui avevo appuntamenti sul campo lavorativo».
Le intercettazioni però esistono e parlano chiaro. Quel giorno i due si sentono al telefono per concordare l’appuntamento. Cosa devono fare? È il tormentone dell’esame. «Sicuramente niente di illecito, gli appuntamento con lui erano solo sul campo lavorativo, sulle riffe – ripete lui -. Alle otto aspettavamo l’uscita delle estrazioni del lotto in televisione o al televideo, giornalmente si faceva così». Nulla a che fare, insomma, col pestaggio del penalista a sentire Abbate. Lui che non sa nemmeno dire quando e come viene a sapere di questa vicenda. «L’avrò sentito al telegiornale quattro-cinque giorni dopo, non lo so, non è che seguo tutte le cronache – dice -. Nello specifico ne sono venuto a conoscenza quando mi hanno consegnato la misura cautelare, ho letto quello che mi veniva contestato». Conosce anche Paolo Cocco, un altro imputato per l’omicidio Fragalà. «È il genero di Salvatore Ingrassia – a cui pure viene contestato di aver preso parte al delitto -. Ma lo conoscevo perché magari lo vedevo in ufficio, questo che chiamate punto Snai, al Borgo, in via Spezio. Anche con Salvatore Ingrassia avevo rapporti di lavoro».
E Francesco Castronovo? «Sempre un ragazzo che frequentava pure là. Io, Castronovo e Ingrassia siamo stati arrestati insieme in un’operazione antimafia». Mentre Francesco Arcuri lo conosce in carcere, alla nona sezione dell’Ucciardone, anni prima del delitto. Diventano intimi, amici di famiglia, si frequentano regolarmente. Eppure non sa dire, davanti ai giudici, con quale mezzo si spostasse all’epoca. «Stiamo parlando sempre del 2010, posso pure dire che si muoveva a cavallo e magari non era vero, non so come si muoveva e presumo non lo sapesse nemmeno lui come mi muovevo io», ironizza. E poi c’è Francesco Chiarello, non imputato per il delitto a differenza degli altri sei, ma che con le sue dichiarazioni ai magistrati ha portato al processo che si celebra oggi. «Non lo conoscevo, questa opportunità di fare la nostra conoscenza me l’ha data l’Alitalia. Sicuramente lui conosce me, ma io a lui non lo conosco completamente».
E poi è la volta delle vittime. Come quella pestata a sangue pochi mesi dopo l’aggressione a Enzo Fragalà. «”Dobbiamo andare a fare quel discorso, il martello ce l’hai ancora sotto la sella?”, di cosa parlavate lei e Ingrassia?», chiede ancora la pm. «Di sicuro non di un pestaggio ma di qualche lavoro edile, poi dobbiamo vedere se lo sbobinamento di quell’intercettazione è stata fatta tutta al completo o solo di quella parte», risponde prontamente Abbate. E la magistrata continua a leggere le trascrizioni che ha davanti a sé: «”Il martello pure buono è, se non c’è ora come gliela rompi la testa? Ci devi ballare pure di sopra”», ma il teste insiste, non ricorda nulla di quella circostanza, di quella conversazione, «non mi è stata mai contestata, la apprendo qui adesso». «“Ti vai a posizionare, fai finta che passeggi così con il martello, mi interessa proprio a scricchiare..”, cosa sono queste frasi?», è sempre questa la domanda di Mazzocco. Ma lui non lo sa. «Di sicuro si parla di lavoro, non di violenza. Io non mi ricordo questa telefonata, perché non è stata fatta mai. Sono io che dico queste cose? Io non lo so spiegare, non capisco di che parlavamo. Magari parlavo di rompere la testa di una vite». È il 19 maggio 2010 e sono passati appena tre mesi dall’omicidio di Enzo Fragalà, quando a questa conversazione segue un altro brutale pestaggio simile a quello del 23 febbraio.
Dov’era quella stessa sera, invece, Francesco Arcuri? È lui a dare il cambio sul banco dei testimoni ad Abbate. «Per quello che ho appreso dal mandato di cattura ero in via Guerrazzi. Non ricordo gli orari». Passa parte del pomeriggio, secondo le ricostruzioni fatte dal pm Bruno Brucoli, alla fiaschetteria La Lanterna: «È una via a venti metri da casa mia, è una specie di ritrovo, sono vent’anni che sto là, sto sempre là. Non è che sono là solo il 23 febbraio, sono stato lì ogni giorno, guardate altre riprese, altre telecamere, vedrete che è così», dice. E di sera? Molte telecamere sembrerebbero immortalarlo, per l’accusa, a bordo di uno scooter Sh bianco nella zona della Zisa. «Se lei mi dice che ero sullo scooter, sarà così. Quella è la zona di casa mia, gli orari sono quelli in cui tornavo a casa». È disponibile, lucido, attento alle domande del magistrato. Ma si rabbuia appena questo inizia a leggere intercettazioni dell’epoca avute con alcuni conoscenti e un’amante. «Ho una splendida moglie a casa, ho perso la libertà ma non la mia famiglia. Non capisco cosa c’entra tirare oggi in ballo le mie relazioni extraconiugali, di cui mi vergogno – afferma in aula -. Non mi posso ricordare quello che è successo otto anni fa, avevo quattro-cinque relazioni. Con una donna parlo solo dei nostri rapporti, non parlerei d’altro, a parte che io non ho fatto nulla».
Si passa poi ai suoi rapporti con gli altri imputati. «Castronovo neanche me lo ricordavo. Cocco non lo conosco proprio, Ingrassia lo conosco e Siragusa pure lo conosco ma non c’ho mai scambiato due parole neanche per commentare una partita di calcio, sono persone che non ho mai frequentato, sono un tantino dispotico per quanto concerne i rapporti di amicizia». Ma protagonisti di questa vicenda, tanto quanto i presunti responsabili del pestaggio del 23 febbraio, sono anche Bonomolo e Chiarello con le loro dichiarazioni. Il primo ammette di conoscerlo: «Non era del mio quartiere, ma lo avevo conosciuto a circa 23 anni». Nega di aver mai condiviso alcunché con lui e lo descrive come un tipo poco raccomandabile. Sul secondo, invece, si infiamma e il suo esame si trasforma di colpo in un flusso di coscienza difficile da arrestare.
«Chiarello non l’ho mai visto e la cosa più triste è non solo che io mi ritrovo in carcere per una cosa che non ho fatto e sto pagando un conto che non è mio, ma per una persona che non ho mai visto e con cui non ho mai parlato in vita mia. Dice di essere uscito dal carcere nel 2009, ma controllate, io non l’ho mai visto questo qua, non è una cosa normale ritrovarmi in carcere…scusate il sarcasmo, ma se questo diceva che il castello della Zisa era mio, sequestravano il castello della Zisa? – dice perentorio -. Non avrei scambiato neanche una parola con questo personaggio, per tutte le fandonie che sta dicendo. Io non l’ho mai visto, spero che lo scempio-Chiarello possa finire il prima possibile, spero che quello che sto dicendo possa dare una visione più ampia. A parte che ad oggi dopo un anno e mezzo ancora devo metabolizzare perché mi trovo qua».
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