Caso Farmacia, una nuova morte sospetta L’arringa di Terranova: «45 anni di sciatterie»

«Sento fortissimo il peso della responsabilità». Era una delle arringhe più attese, la più difficile anche dal punto di vista emotivo, quella delle parti civili costituite nel procedimento per disastro ambientale all’interno dell’ex facoltà di Farmacia di Catania. A curarla il legale che per primo ha tenacemente chiesto che il caso varcasse le soglie del Tribunale di Catania, Santi Terranova. «Questo processo è il più delicato e intenso della nostra vita professionale», spiega alla corte anche a nome dei colleghi; tutti mossi dall’«orrendo dubbio che le parti abbiano potuto provocare delle morti». Il nesso di casualità tra gli sversamenti delle sostanze chimiche e i malori, le malattie e i decessi è senza dubbio il nodo principale da sciogliere, un argomento che ogni volta che viene toccato, scatena forti polemiche tra i legali coinvolti. Per appurarlo la Procura etnea, con il procedimento numero 41157 del 2008, ha aperto un fascicolo il cui reato ipotizzato è omicidio colposo plurimo. «Tuttavia, e questo mi sembra contrario alla logica, i due processi hanno seguito percorsi diversi», e il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione per questo secondo filone. Alla richiesta le difese non faranno opposizione, ma chiederanno la riapertura delle indagini all’esito di questo processo.

L’avvocato – che si definisce «fissato con i numeri» – snocciola quelli che riguardano finora il caso. 150 ore di dibattimento, oltre 60 udienze, otto imputati, 300 metri cubi di terreno presumibilmente inquinato asportati, «45 anni di sciatteria, menefreghismo, dabbenaggine». «L’unico numero che non si può fermare – continua con crescente amarezza – è quello dei morti», spiega, annunciando un nuovo nome al triste elenco, quello della ricercatrice 42enne Giuseppina Pirracchio, collega di Emanuele Patanè e Agata Annino.

Nell’ambito del procedimento in corso «il nostro compito è stato relegato a quello di semplici spettatori», prosegue Terranova. Per le parti civili, senza dubbio, il colpo più duro da assorbire è stata la decisione del procuratore Lucio Setola – fino a settembre titolare del caso, sostituito nella fase finale da Giuseppe Sturiale – di circoscrivere il periodo del processo nel periodo compreso tra il 2004 e il 2007, lasciando fuori dal procedimento i familiari di Emanuele Patanè, «colui il quale ha dato l’inizio a tutto». Il dottorando, morto nel dicembre 2003, ha lasciato un memoriale nel quale descrive lo stato dei luoghi, le prassi, la cattiva conservazione delle sostanze, le irregolarità procedurali. Pagine che oggi diventano una testimonianza vera e propria, confermata e avvalorata dai racconti dei numerosi teste sentiti nel corso delle udienze. «Mi fidavo delle parole di un padre che mi diceva che quel documento lo aveva scritto il figlio in un letto d’ospedale in Florida». Così l’avvocato spiega per quale motivo ha difeso strenuamente quanto scritto dal giovane dottorando qualche settimana prima di morire. «È un elemento processuale ineludibile».

Lele Patanè imposta in maniera schematica il suo memoriale, partendo dalla descrizione degli ambienti. I locali con le finestre bloccate, le cappe di aspirazione non funzionanti fino al 2012, come ribadito in altre testimonianze, le sostanze – alcune delle quali catalogate come R49, potenzialmente cancerogene – conservate in armadietti arrugginiti per anni. E poi la raccolta e lo stoccaggio dei rifiuti fatti da personale non specializzato, i fusti portati in giro per i locali con un carrello traballante. «Seppure Emanuele fosse sconvolto dalla sua malattia, non perde lucidità», e stila anche una lista delle persone – colleghi, amici, persone con le quali viveva a stretto contatto ogni giorno – che lentamente si ammalano o muoiono. «Voi – afferma con emozione Santi Terranova rivolgendosi alla corte – avete dato voce a Emanuele Patanè».

La norma di riferimento principale nel caso, spiega, è la 626 del 1994, grazie alla quale viene stabilito chi sono i soggetti che hanno il compito di proteggere i lavoratori: il datore di lavoro, l’ex rettore Ferdinando Latteri, (morto nel 2011 e mai formalmente imputato), e il suo rappresentante, il direttore amministrativo Antonino Domina, il responsabile del servizio prevenzione e sicurezza (Fulvio La Pergola), il medico del lavoro (Marcello Bellia). E poi i vertici della facoltà (l’ex preside Giuseppe Ronsisvalle), il direttore dell’epoca del dipartimento (Franco Vittorio) e i membri della commissione sicurezza (formata dai due docenti con Giovanni Puglisi e Francesco Paolo Bonina), ente con potere di decisione e spesa formata proprio per affrontare la problematica. Oltre a loro, è imputato Lucio Mannino, dirigente dell’ufficio tecnico. La normativa – di conseguenza – stabilisce chi deve essere tutelato. Tra i quali, senza dubbio, anche gli studenti.

Il legale spiega come ampio, straordinario e temporalmente lungo sia stato lo sversamento di materiale chimico all’interno della struttura. Una contaminazione confermata dalle parole degli ex docenti Francesco Guarrera ed Ennio Bousquet, oltre a quelle del tecnico Antonio Palmeri, della dipendente Viviana Ardita e delle ex studentesse Sara Schiavolena e Carla Gennaro (figlia, quest’ultima, di una delle presunte vittime). «Abbiamo la prova che dal 1968 al 1997-98 tutto si buttava nei lavandini», continua. «Quei vapori, da chi venivano respirati?», si chiede guardandosi attorno. Un’altra testimonianza importante è quella dell’ispettore dell’Asl Natale Aiello, il quale – assieme ad altre violazioni – nel 2011 segnala la presenza di lavandini corrosi, sporchi e anneriti dagli acidi. Segno che, nonostante l’avvio dei due processi e del clamore mediatico scatenato, nessun controllo è stato fatto. E poi ci sono le lettere, le note ufficiali, i verbali delle riunioni. «La situazione era conosciuta», scandisce Terranova.

Ma come sottolinea il difensore, nel corso delle udienze non sono mancate le incongruenze. Su tutte dominano le differenti versioni di docenti in pensione e personale raffrontate a quelle fornite dai prof ancora in servizio su cosa accadeva all’interno dell’edificio 2. Il legale cita le reticenze di Loredana Salerno, Mariangela Siracusa e di due ispettori dell’Asl convocati dopo un reclamo di una dipendente. C’è un momento – prosegue – nel quale le lettere e le segnalazioni fioccano, è il giugno 2005. «Lo sapete perché? Forse perché il 3 giugno è morta Agata Annino – dottoranda, anche lei collega di Emanuele, ndr – e tutti hanno paura che quel dipartimento possa diventare la loro tomba», tuona Terranova.

Al termine della sua arringa interviene Vito Presti, rappresentante dell’associazione Cittadinanza attiva, onlus anch’essa parte civile nel procedimento. Suo il compito di esaminare il ruolo assunto dalla It group – azienda lombarda esperta nella bonifica di siti industriali – convocata di gran fretta dalla commissione sicurezza e dai vertici della facoltà. Dopo i primi sopralluoghi e la stesura di un piano di messa in sicurezza di emergenza, il compito della ditta viene sempre più ridotto, negando ai tecnici anche la possibilità di fare carotaggi all’interno della struttura universitaria e il prelievo di terreno durante gli scavi per sostituire l’impianto fognario.

Le parti, consegnando le proprie memorie, si sono associate alle richieste di condanna formulate dall’accusa e hanno redatto le proprie richieste risarcitorie prendendo come spunto quelle concesse in occasione del processo per il disastro ambientale di Seveso. Prossima udienza venerdì prossimo, 7 marzo, con la doppia arringa dell’Università sia come parte civile che come responsabile civile.

Carmen Valisano

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