«Pare impossibile sostenere la legittimità di un procedimento amministrativo diretto alla sostituzione di un capogruppo già eletto con la regola della maggioranza semplice». È la frase con cui si chiude il parere dell’avvocatura comunale a proposito della sfiducia al capogruppo del Partito democratico in consiglio comunale Giovanni D’Avola. In altri termini, secondo i legali di Palazzo degli elefanti, la nomina di Nino Vullo è illegittima. Il motivo? Avrebbe dovuto essere eletto con la maggioranza semplice del gruppo consiliare, vale a dire il voto favorevole della metà più uno dei consiglieri che lo compongono. E se i democratici al senato cittadino sono sei, va da sé che per sfiduciare D’Avola ed eleggere un nuovo leader serviva l’appoggio di quattro di loro. In realtà, però, a disfare e fare il gruppo consiliare ci hanno pensato solo in tre: lo stesso Nino Vullo, e i consiglieri Ersilia Saverino e Niccolò Notarbartolo.
Lo scorso 6 maggio, poco prima di una seduta del consiglio comunale piuttosto accesa, Vullo, Saverino e Notarbartolo avevano convocato quella che da molti è stata definita una «riunione carbonara». In quell’occasione avevano firmato una sfiducia che, aveva detto Nino Vullo, «parte da lontano». E che deriverebbe dalle molte assenze di D’Avola dal senato cittadino. «Crediamo sia arrivato il momento di essere propositivi – sosteneva Vullo quasi dieci giorni fa – Adesso siamo più compatti di prima». A smentire quest’ultima affermazione, però, ci aveva pensato pochi minuti dopo il consigliere Pd Lanfranco Zappalà: «Questo è il consiglio comunale, non è un condominio», replicava piccato. «La questione arriverà ad altri tavoli del partito – annunciava – perché così non può reggere».
In effetti quanto auspicato da Zappalà è successo. E il primo a prendere una posizione contro i tre dissidenti è stato il segretario provinciale Enzo Napoli, che minacciava di portare la questione davanti agli organismi di garanzia del Partito democratico. Poco dopo era arrivato a dire la sua anche il vertice regionale Fausto Raciti, che aveva invitato i democratici etnei a restare uniti e a evitare spaccature. Un desiderio rispettato nell’ultima occasione utile: la visita della ministra Maria Elena Boschi nel capoluogo etneo. Mentre a Palazzo Platamone si discuteva della riforma costituzionale, in platea il Pd si mostrava sorridente. E lontano dalle polemiche politiche che agitano i corridoi del municipio.
In contemporanea con i preparativi per l’appuntamento, però, l’avvocato capo del Comune Marco Petino completava il suo parere sulla nomina di Nino Vullo. Del resto, era stato proprio quest’ultimo a richiederlo formalmente, per capire quale fosse «il corretto percorso amministrativo da seguire» a proposito del suo insediamento al posto di D’Avola. In tre pagine, Petino ricorda i doveri e i poteri del capogruppo e spiega che per la sua elezione «l’unico parametro di riferimento è il regolamento del consiglio comunale». Le regole «minime» da seguire, per l’avvocatura, sarebbero state due: una richiesta formale di riunione, inviata al capogruppo e a tutti i consiglieri Pd, che parlasse esplicitamente della volontà di sfiducia; e il voto della maggioranza semplice (cioè, appunto, quattro consiglieri). Il punto è, ammette l’avvocatura, che nel regolamento del consiglio comunale non esiste una norma specifica sul capogruppo. Ostacolo che si aggira facendo valere la stessa regola prevista per la nomina dei presidenti delle commissioni consiliari. I quattro voti, però, com’è noto non c’erano. Motivo per il quale l’elezione di Vullo sarebbe illegittima.
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