È il siracusano 60enne Francesco Magnano il nuovo direttore del Cara di Mineo, che prende il posto di Giuseppe Di Natale. La sua nomina è arrivata dopo il passaggio di consegne tra la vecchia e la nuova gestione dei servizi nella struttura del Calatino, avvenuta lo scorso 1 ottobre. Oltre dieci anni di esperienza nel settore dell’accoglienza dei migranti, Magnano ha già gestito due centri Sprar a Pachino e un centro di prima accoglienza per 200 minorenni a Priolo. Sempre in provincia di Siracusa, è stato anche nella direzione del Cara Don Bosco, un hotel a tre stelle trasformato in un centro di accoglienza che si trova tra i territori di Canicattini Bagni e Palazzolo Acreide. Il neodirettore del centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo è anche collaboratore di lungo corso del giornale siracusano La civetta di Minerva. Nel 2016, inoltre, Magnano si è lanciato in un progetto politico ed è stato designato come commissario cittadino nel capoluogo aretuseo dell’Italia dei valori.
Come arriva la sua nomina a direttore della del Cara di Mineo?
«Si dicono un sacco di fregnacce sul Cara. Vorrei subito sgombrare il campo da chi ha messo in giro la voce falsa che io sono membro di una delle cooperative che si è aggiudicata l’appalto. C’è stata una selezione e sono stato scelto. Forse perché ho 60 anni e la complessità di questa struttura esige autorevolezza e buonsenso. Dopo dieci anni in questo settore, è una soddisfazione gestire il più grande centro di accoglienza per richiedenti asilo d’Europa».
È possibile che si tocchi la fatidica «quota 1500» che porterebbe alla chiusura della struttura rendendo concrete le mire del ministro dell’Interno, Matteo Salvini? Lei è preoccupato da questa possibilità?
«Gestire un centro di accoglienza come questo costa un botto. Per darle un’idea: le sole utenze, esclusa l’elettricità, ammontano a oltre seimila euro al mese. Oggi gli ospiti del centro sono 1881. S’immagini cosa significa in termini economici dare da mangiare a tutte queste persone. Credo che il Cara di Mineo non abbia una vita lunghissima davanti a sé. Gli arrivi di migranti sono sempre meno e gli ospiti che ci sono adesso, man mano che ottengono il permesso di soggiorno, preferiscono trasferirsi altrove».
In molti hanno già definito questo periodo come «di transizione» verso la chiusura. Lei come la vive?
«La cosa che mi sta più a cuore è portare un concetto di rieducazione all’interno del Cara, nel senso più pedagogico del termine. Oggi siamo in una fase di difficoltà gestionale dovuta alla riduzione delle risorse economiche e stiamo cercando di mediare affinché anche gli ospiti lo capiscano. Pure questo può diventare un modo per mettere in pratica la condivisione e la responsabilizzazione».
È noto che i tempi delle commissioni territoriali competenti per i permessi di soggiorno e l’iter burocratico che ne segue sono lentissimi. Le persone che adesso sono ospiti del Cara di Mineo da quanto tempo vivono all’interno della struttura?
«La stragrande maggioranza è qui da un anno. Stiamo parlando di circa l’80 per cento degli ospiti. Poi ci sono casi sparuti di persone che vivono all’interno della struttura anche da due o tre anni. Sono tempi eccessivamente lunghi, ma non dipendono da noi».
Ci sono già state le prime proteste degli ospiti dovute al taglio di alcuni servizi, a cominciare dalla gestione della mensa con il cambio del menù.
«Quella protesta è rientrata subito. Nasceva dalla volontà di modificare i pasti, secondo un piano dettato dall’Ordine dei medici e dall’istituto superiore della Sanità: 120 grammi di pasta, 150 grammi di carne, un contorno, il pane, un frutto e l’acqua. Allo stato attuale, non mangiando la pasta i migranti arrivano a mangiare fino a 300 grammi di carne al giorno. Anche in questo senso, si voleva dare un segnale di rieducazione adeguando la dieta agli standard europei. Avendo sortito quella reazione, per evitare disordini, si è preferito continuare a dare quello che hanno sempre avuto».
Di recente, il sindaco di Mineo Giuseppe Mistretta ha lanciato l’allarme della sospensione sanitaria ai migranti all’interno del centro. Altra decurtazione temuta è quella che riguarda il servizio del trasporto con bus-navetta. Non si rischia che ne risenta troppo la qualità della vita degli ospiti?
«La questione sanitaria è stata superata venerdì. L’Asp di Catania ha garantito la continuità fino alla stipula di una nuova convenzione. L’unico cambiamento consiste nel fatto che il lavoro che prima ero svolto dalla Croce rossa adesso viene è in mano al gruppo gestito dal consorzio. La copertura con i turni è garantita 24 ore al giorno. Il servizio navetta, come sancito dal capitolato d’appalto, è stato ridotto: c’è un pullman settimanale (di 50 posti) che va a Mineo e uno a Catania. Per le ricorrenze importanti per le comunità, inoltre, si è disposta una navetta da 84 posti (bus a due piani) che accompagni gli ospiti».
Con il nuovo appalto disegnato per 2.400 persone (anziché 4.000), c’è stata una drastica riduzione del personale: da 350 fino a circa 190. Alcune rivendicazioni sindacali denunciano che lavoratori rimasti svolgono mansioni diverse da quelle previste. Come risponde?
«Gli operatori fanno gli operatori. Se una squadra di calcio ha avuto il cartellino rosso per metà dei giocatori, è chiaro che l’allenatore non può dire al terzino di fare solo il suo ruolo. Tutti devono collaborare al buon governo della nave, restando nell’alveo della legalità. Non chiederò mai a uno psicologo di andare a servire alla mensa. Insomma, tutte le aree professionali continuano a fare il proprio lavoro».
Quindi le denunce pubbliche fatte dai sindacati sono false?
«Purtroppo vi è l’inveterata abitudine di parlare di cose che non si conoscono. Il gioco delle parti non mi scandalizza, vorrei però più verità. Gli operatori fanno gli operatori. I professionisti fanno i professionisti. Ci siederemo, se vorranno. Alla mia età e nelle condizioni occupazionali che stiamo vivendo, credo sia più necessario agire col buon senso».
Lei ha gestito in passato diversi centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Crede che il modello dei Cara possa funzionare nell’ottica di un’accoglienza funzionante e fruttuosa?
«L’Italia agisce ancora in emergenza nel settore dei migranti. La prima accoglienza funziona bene ma c’è una carenza strutturale che impone di dover trattenere le persone per più tempo. Tutto dipende dal fatto che i posti negli Sprar sono pochi, quindi il processo di integrazione è rallentato nella seconda fase della permanenza dell’ospite. Qui al Cara abbiamo un job center che ha già provveduto fare ingaggiare 40 ospiti – che sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno – in una macelleria aziendale che si occupa di carne di pollo, ma si tratta di un lavoro non continuo che dipende dagli ordini che arrivano dalla clientela».
Si è parlato di diversi tipi di illegalità tollerata all’interno e nei dintorni del Cara (non ultimo il fenomeno dei tassisti abusivi), forse per la garanzia di un quieto vivere. Ci sarà un cambio di rotta?
«C’è già stato un cambio di rotta. Sabato mattina, per esempio, abbiamo lavorato a un’operazione di polizia per individuare un’area di illegalità emersa da tempo. Un mercato illegale che va estirpato: qualcuno si rifornisce altrove e poi rivende qui dentro. Da alimenti che non si trovano in mensa come alcune spezie fino a prodotti di merceria o altri oggetti che possono servire all’interno delle abitazioni. Sui tassisti abusivi, invece: ci sono ancora ma che la mia giurisdizione si ferma davanti al cancello d’ingresso della struttura. Quello che posso fare e che ho fatto è segnalare il fenomeno per fare in modo che venga estirpato ma senza provocare grosse tensioni. Anche per questo, forse, ci vuole il buon senso del 60enne».
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