Cara: a Palagonia guerriglia e assemblea Il racconto di una giornata ad alta tensione

«E’ stata una mattinata che non dimenticheremo, il giorno in cui lo Stato, la politica e chi gestisce il Cara ha abbandonato questa comunità». Alle tre del pomeriggio, nove ore dopo l’inizio della protesta di circa 500 richiedenti asilo del centro d’acoglienza di Mineo, il sindaco di Palagonia, Valerio Marletta, parla al megafono nella piazza del municipio della città che amministra. Di fronte a lui ci sono i suoi concittadini, dalla parte opposta i migranti. Sullo sfondo un cordone di polizia. I pezzi ricomposti di un puzzle che nelle ore precedenti era andato pericolosamente in frantumi, con le forze dell’ordine a bloccare l’avanzata dei manifestanti, i quali rispondevano con lanci di pietre e bottiglie. E i palagonesi più caldi pronti ad organizzarsi in milizie per difendere la città dall’arrivo dei «niuri».

La protesta era nell’aria da alcuni giorni. Soprattutto dopo il suicidio di Mulue, il giovane eritreo impiccatosi nell’armadio della sua stanza lo scorso 14 dicembre. E’ nel suo nome che all’alba un folto gruppo di migranti africani – in maggioranza eritrei e nigeriani – esce dal Cara e occupa la strada statale 417 Catania-Gela. Iniziano i primi blocchi, ma il corteo si incammina pacificamente in direzione del capoluogo etneo, meta fissata dai manifestanti. «Yes yes our rights, no more negative». Sono questi gli slogan ripetuti: più diritti e meno richieste d’asilo rigettate dalla commissione territoriale. «Vogliamo imparare l’italiano, avere una migliore assistenza sanitaria e non mangiare sempre pasta», aggiungono i rappresentanti delle comunità. Nel Centro già si tengono lezioni di italiano, un’ora al giorno quattro volte alla settimana in 29 classi da 30 studenti. Troppo poco secondo i manifestanti.

Al bivio per Palagonia il corteo decide improvvisamente di svoltare verso il paese. Un elicottero controlla dall’alto, mentre polizia e carabinieri accompagnano i richiedenti asilo, prima a distanza, poi sempre più vicino. Le forze in campo sono sproporzionate: qualche decina gli uomini in divisa, contro centinaia di africani. La tolleranza finisce in via Palermo, all’altezza del campo sportivo. Ormai alle porte di Palagonia. «Bloccateli», ordina il dirigente. Troppo alto il rischio di arrivare in centro, dove nel frattempo si è sparsa la falsa notizia di saccheggi in un supermercato e gruppetti di uomini si sono organizzati in milizie, pronti ad una giutizia fai da te. Anche la manifestazione dei bambini delle scuole, che si sarebbe dovuta tenere in piazza, è stata sospesa. I migranti vanno incontro agli scudi dei poliziotti, sfondano il cordone in un primo momento, ma le forze dell’ordine rispondono con una leggera carica. Una ragazza nigeriana, nelle prime file al momento dei tafferugli, sviene. «La donna non è stata toccata, ha avuto un malore», precisa il dirigente della polizia.

La tensione è alle stelle: urla, spinte, manganellate, lacrimogeni e lanci di grosse pietre, bottiglie di vetro e di plastica dalle retrovie del gruppo. I leader della protesta non riescono più a gestire la situazione. Chidi, il marito della donna svenuta, fatica per prenderla in braccio e portarla al riparo, in attesa dell’ambulanza che arriva alle spalle dei manifestanti. E mentre il gruppo si apre per farla passare, qualcuno dalla sinistra lancia altre pietre che finiscono per rompere il vetro del mezzo. Isac, uno degli africani rimasto dietro il cordone di polizia per provare una mediazione, si mette le mani nei capelli disperato. «Perchè? Perchè?», urla. L’aria diventa irrespirabile, la gola e gli occhi bruciano a causa dei lacrimogeni. Dopo un’altra carica, stavolta più violenta, i richiedenti asilo indietreggiano. La situazione torna lentamente nella norma e inizia la lunga trattativa. Davanti alle telecamere delle televisioni locali, che nel frattempo hanno raggiunto il luogo degli scontri, i manifestanti possono sfogarsi. «Perché dobbiamo rimanere in Sicilia? Perché non mi lasciano andare a Roma, in Austria o in Germania? Sono qui da undici mesi e sto soffrendo. Non sono un prigioniero, non ho commesso nessun reato. Voglio andare via», urla Chidi in lacrime.

Il gruppo chiede la liberazione dell’eritreo arrestato con l’accusa di aver lanciato la pietra che ha colpito l’ambulanza. Richiesta impossibile da accogliere, visto che è già stato trasferito al Tribunale di Caltagirone e, da qui, al carcere di Piazza Lanza. A svolgere il ruolo di mediatori sono l’interprete ufficiale della polizia, il sindaco di Palagonia, nel frattempo giunto sul posto, e alcuni attivisti della Rete e di altre associazioni antirazziste. Non c’è nessun mediatore culturale del Cara. E così sarà anche per le ore successive. Nel frattempo altri gruppi di immigrati bloccano anche la strada di accesso per Mineo e la statale 417.

Proprio quando sembra prevalere l’idea di tornare indietro e marciare su Catania, i richidenti asilo svoltano in una strada di campagna con l’intento di raggiungere il centro di Palagonia. «Sono rimasti al massimo una trentina», prova a rassicurare la polizia. Inizia una ricerca infruttuosa sui sentieri di periferia. Sagome appaiono per qualche secondo per poi nascondersi nuovamente nel verde. Fino a riaffiorare, ben visibili e rumorosi in pieno centro. Non sono poche decine, ma almeno un centinaio. «Arrivaru i niuri», commentano i cittadini rimasti per strada. C’è chi abbassa la saracinesca del negozio, chi si affaccia dal balcone. O chi, a bordo di un camion furgonato bianco, deliberatamente inserisce la prima marcia e punta dritto sul corteo. La prima fila fa in tempo a scansarsi, qualcuno viene spinto via. Ma nessuno fortunatamente si fa male. Il mezzo riesce a passare, ma il traffico ne rallenta la corsa e gli immigrati provano a inseguirlo invano. «Facciamoli radunare in piazza», suggerisce il sindaco alla polizia, rimasta spiazzata dall’evolversi dei fatti. Qui i migranti si siedono a terra e formulano una piattaforma di richieste da consegnare a Marletta, che promette di farsi portavoce presso la Prefettura. I temi sono gli stessi scanditi dalla prima mattina. «Chiediamo scusa ai poliziotti se qualcuno ha preso una deriva violenta, non era nostra intenzione – spiega Aziz al megafono – A voi cittadini diciamo che non vogliamo danneggiare le vostre case e i vostri terreni. Abbiamo rischiato la vita su un barcone per arrivare in Sicilia, ma lo abbiamo fatto per cercare un futuro di pace e libertà».

Salvo Catalano

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