Dalla croma marrone che salta in aria alle 17.58, colpita in pieno dalla carica esplosiva piazzata nel cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada, alla corsa al Civico perché qualcuno è ancora vivo. Gioacchino La Barbera che li aveva seguiti con la sua auto tenendosi a distanza, perché di lì a poco Giovanni Brusca avrebbe schiacciato un bottone facendo esplodere l’A29 all’altezza di quel famoso svincolo. Lì, memore di quella tragedia, campeggia quasi fiera da allora una stele rossa con quei cinque nomi. Di quel 23 maggio 1992, insomma, è stato scritto e sviscerato ogni dettaglio. Venticinque anni oggi, che però non sono bastati a chiudere la voragine creata da quel boato. Anniversario dopo anniversario, la strage di Capaci rimane una ferita aperta, sanguinante. Venticinque anni e una mafia che ha cambiato volto, che è stata costretta a indietreggiare. Ma presente, come un cancro che non vuole regredire del tutto. E a ricordarcelo sono stati i colpi di pistola sparati alle otto meno dieci di una mattina come tante. O forse no.
«Io avrei un’ipotesi». Umberto Santino, fondatore e presidente del Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, non riesce a credere che il boss Giuseppe Dainotti sia morto alla vigilia del 25esimo anniversario della strage di Capaci per puro caso. Lo hanno freddato in pieno giorno ieri mattina, mentre attraversava in bicicletta la via D’Ossuna, vicino la Zisa. «Il tempismo con cui è avvenuto questo delitto potrebbe rappresentare una sfida, c’è questa coincidenza con il 25esimo della strage che indubbiamente inquieta, una presenza che continua a esserci anche in forma violenta», spiega Santino. A portare all’omicidio, secondo lui, sarebbero state le recenti scarcerazioni eccellenti di alcuni boss: «I capimafia che oggi tornano in libertà trovano una situazione cambiata e i posti di comando occupati dalle seconde e terze file – dice – Ma i vecchi boss non ci stanno, vorrebbero tornare a occupare le posizioni lasciate con la galera e qui scoppia la frizione e, in questo caso, anche il delitto». Tensioni sotterranee pronte a ricordarci che Cosa nostra non è affatto sparita. Malgrado non sia più quella che era 25 anni fa.
«La mafia fotografata dal maxi processo, le famiglie, i mandamenti, la commistione, il capo dei capi, e poi l’avvento dei corleonesi e il passaggio da repubblica confederale a monarchia assoluta in forma dittatoriale», ricostruisce, fino alla crisi dell’egemonia corleonese e a un Bernardo Provenzano decisamente lontano dalla linea stragista. «Nel frattempo la mafia ha subìto dei colpi, Cosa nostra si può dire che sia in crisi: sul traffico di droga ha perso l’egemonia perché ormai il lo fanno tutti, anche per quanto riguarda il suo sistema relazionale non credo che ci sia più un quadro completo, sono state tante le prese di distanza, come quella dei commercianti e degli imprenditori che hanno assunto un atteggiamento antiracket – prosegue – Sono tutti pezzi che si perdono».
Ma dopo il passo indietro nella storia della mafia, occorre anche fare i conti con fatti e personaggi del presente. Come il Procuratore capo Francesco Lo Voi, che l’altro ieri nella chiesa di San Domenico ha dichiarato che malgrado i tanti magistrati bravissimi incontrati nella sua carriera, nessuno riesce a eguagliare i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Il discorso fatto da Lo Voi lo leggo all’interno delle polemiche che ci sono dentro al Palazzo di Giustizia – dice Santino – Non è più il palazzo dei veleni ma comunque è sempre uno spazio conflittuale. Cioè questo discorso in soldoni significa che loro due erano dei grandi magistrati, e quelli che in qualche modo lavorano sulle loro ipotesi oggi non sono all’altezza. Una laudatio del passato e la presa di distanza da altri magistrati che con Lo Voi non sono d’accordo, mi pare che sia questo il senso del suo discorso». Una presa di distanza, quindi, che secondo Santino corrisponderebbe a una «forma di delegittimazione» non mirata a un singolo magistrato, ma che potrebbe riguardare «tutti i magistrati che si occupano del processo sulla trattativa tra Stato e mafia».
Ma storia e presente, spesso, hanno qualcosa in comune. «Dopo i mafiosi, i principali avversari e nemici di Falcone sono stati i suoi colleghi, non so se adesso c’è una situazione di quel tipo. E non so nemmeno se all’interno delle celebrazioni queste cose si dicono chiaramente, però Falcone è stato avversato soprattutto dai suoi colleghi – racconta infine – C’era un’avversione nei suoi confronti derivante soprattutto dal fatto che non c’era solo l’impegno dal punto di vista etico, c’era un di più dal piano della professionalità che gli altri non tolleravano. È stato umiliato, vessato e denigrato, e poi da morto tutti sono corsi a lodarlo. Questo è accaduto anche per Libero Grassi e per tanti altri che sono stati isolati da vivi e poi santificati da morti. Si corre il rischio, con commemorazioni come quella di oggi, di mistificare la realtà presentandolo come l’eroe in cui tutti si riconoscevano, ma è esattamente il contrario».
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