Cani randagi, gli arrusi di Roberto Paterlini Romanzo d’amore, costrizione e omofilia

Una mattina di fine estate Federico e Giacomo trovano nel fondo di un comodino una vecchia audiocassetta registrata nel 1987. Questa contiene l’intervista curata da Francesco, zio di Giacomo, ad un anziano siciliano, Luigi, allontanato da Catania durante il regime fascista perché di orientamento omoerotico. Da qui la narrazione di Cani randagi, secondo romanzo dell’autore Roberto Paterlini edito da Rai Eri, si dipana lungo tre filoni temporali che raccontano la vita di Luigi, Francesco e Giacomo. Il primo alle prese con il confino degli anni Trenta, il secondo con la malattia dell’Aids che colpisce il compagno negli anni Ottanta, e il terzo con l’ossessione di non riuscire ad amare ai giorni nostri. Una vicenda con tre protagonisti omosessuali ma che punta a far emergere altri temi, come spiega a CTzen l’autore.

Cani randagi gioca molto con il tempo. Tre storie si distendono e si incrociano lungo altrettante generazioni. Da dove nasce l’idea del romanzo?
«La scintilla è stato l’episodio del confino degli anni Trenta. Documentandomi per curiosità personale ho trovato che le prime interviste ai confinati risalivano alla metà degli anni Ottanta, anni particolari per la comunità gay. Pensando a quei due momenti, e a me che scoprivo le segregazioni per motivo sessuale in un contesto completamente diverso, ho iniziato ad abbozzare la struttura, che poi è stata quella finale del libro».

«C’erano i maschi, che erano legittimati a metterlo in qualsiasi buco li aggradasse, e restavano maschi. E poi c’erano gli arrusi». Con quest’ultimo termine venivamo definiti gli omosessuali durante il regime fascista. È stata difficile la ricostruzione storica delle persecuzioni sessuali?
«Fortunatamente c’è stato chi ha fatto questo lavoro prima di me, per cui la mia non è stata una vera e propria ricostruzione. Il sito di Giovanni Dall’Orto, i saggi di Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti – La città e l’isola – e di Lorenzo Benadusi – Il nemico dell’uomo nuovo – sono stati fonti impagabili».

«Continuo anche a pensare al nastro che abbiamo sentito. […] Sai, all’inizio mi sono detto: in fin dei conti non gli è andata tanto male… E se pensi a cosa è successo in Germania, che i finocchi venivano deportati nei campi di concentramento e torturati e ammazzati, effettivamente non gli è andata troppo male… Ma in realtà il principio non cambia. Sarebbe come dire che se la passa meglio quello a cui semplicemente dicono frocio rispetto a quell’altro che viene preso a botte… Certo, ovvio che è così! Ma sono due frutti della stessa pianta». Credi che adesso sia più semplice vivere liberamente la propria omofilia?
«Sicuramente, come dice lo stesso Federico nel pezzo citato, la situazione oggi è molto diversa e, in termini assoluti, più facile. Certo, il processo deve ancora completarsi nel nostro paese più che in altri. Il riconoscimento istituzionale avrebbe un peso importante, anzi importantissimo, anche se da solo credo non sarebbe sufficiente. Ritengo che parallelamente sia necessario un serio processo culturale e anche un’azione più decisa da parte dei tanti personaggi pubblici omosessuali».

Qual è la tua opinione in merito alla Legge sull’omofobia che, grazie ad un emendamento, non punisce eventuali discriminazioni sessuali provenienti da gruppi politici o religiosi, in nome della libertà d’espressione, contro la quale si sono scagliati M5S e la comunità Lgbt?
«Rispondere nello specifico richiederebbe quasi un trattato, il quale a sua volta richiederebbe una preparazione che non credo di avere. Mi limito a dire che emendare in quel modo una legge come la Mancino che esiste da molti anni, proprio quando la si vuol estendere ai reati di omofobia, è a dir poco offensivo. La libertà di parola in Italia è garantita dalla Costituzione. Che questo Parlamento abbia sentito di doverla ribadire proprio in relazione questa tematica parla da sé. E la dice lunga, peraltro, su chi questo emendamento l’ha proposto e votato».

Ti senti particolarmente vicino a qualcuno dei personaggio del tuo libro?
«Sarà banale dirlo, ma a tutti e a nessuno».

Credi che l’omoerotismo in letteratura sia ancora un tabù in Italia?
«Passatemi la battuta, reputo che la letteratura in sé sia un tabù in Italia. Seriamente, dubito che ci siano in Italia editori che si rifiuterebbero di pubblicare un buon romanzo perché ha al centro personaggi gay. Sulle scelte del pubblico non mi esprimo: ha tutti i diritti e ha sempre ragione. È però risaputo che in Italia si legge molto poco e questo è trasversale a tutte i temi e a tutti i generi letterari».

Quale pensi che sia il messaggio più importante contenuto in Cani randagi?
«Quando lo stavo scrivendo, e in generale quando compongo, non ho in mente mai un messaggio in particolare. Posso avere in testa una tematica, ma mi sembrerebbe paternalistico e fuori luogo volere insegnare qualcosa ai lettori. Chi sono io per insegnare qualcosa a qualcuno?! Sarò ingenuo, ma non credo nemmeno che il tema del romanzo sia l’omosessualità, o quantomeno non ho mai pensato che lo fosse mentre lo stavo scrivendo. Stimo che gli argomenti principali siano la costrizione, l’ideologia, la malattia, la morte, il rimpianto e l’ossessione. Che a viverli siano personaggi omosex è quasi incidentale, o costituisce semplicemente una cornice».

Il romanzo, che ti è valso la Giara d’oro nel 2012, è stato definito dalla critica ruvido, duro e molto coraggioso. Parla d’amore, si sofferma sul dolore, indaga l’alterigia e l’irrequietezza dell’animo umano. Dino Giarrusso ne ha curato il book trailer. Pensi che il tuo libro abbia le caratteristiche per fare il salto dalla carta stampata al grande schermo?
«Credo che la vicenda degli arrusi catanesi meriterebbe in sé un film. Il mio romanzo, per via dell’intreccio, potrebbe prestarsi a raccontare quella storia per il cinema, ma potrebbero esserci anche altri approcci».

C’è nei tuoi progetti l’idea di continuare a scrivere?
«Certamente».

Cassandra Di Giacomo

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