Responsabilità, organizzazione, valutazione, fiducia: quattro parole che possono riassumere il percorso che l’università italiana si trova a dover affrontare in questi mesi, a ridosso dell’entrata in vigore della riforma Gelmini e il conseguente riordino del mondo accademico. L’incontro “Quale assetto organizzativo per le università italiane?”, organizzato lo scorso venerdì nell’ambito delle attività del dottorato di ricerca in Economia pubblica del Dipartimento di Economia e metodi quantitativi dell’Università di Catania è stata l’occasione per parlarne approfonditamente con ospiti di esperienza nazionale ed internazionale.
A fornire gli spunti principali del dibattito è stato il rapporto di ricerca Unires–Fondazione Crui “Tra didattica e ricerca: quale assetto organizzativo per le Università italiane? Le lezioni dell’analisi comparata” realizzato da Giliberto Capano e Marino Regini. Lo studio, condotto su un campione di otto università di quattro paesi europei, è nato dalla volontà di approfondire in quale maniera questi atenei hanno organizzato ricerca e didattica. Come ha spiegato Marino Regini, ordinario nel dipartimento di Studi del lavoro e del welfare e pro-rettore dell’Università di Milano, «in Italia, con l’entrata in vigore della legge Gelmini e il relativo riassetto del sistema dei dipartimenti, il governo della didattica è diventato il vero problema».
Introdotto da Isidoro Mazzi e Giacomo Pignataro, docenti della facoltà catanese di Economia, il prof. Regini ha illustrato i risultati della ricerca condotta sulle università di Manchester e Leicester (Inghilterra), Amsterdam e Twente (Olanda), Monaco e Kassel (Germania) e Strasburgo e Aix-Marseille I (Francia).
L’Inghilterra è caratterizzata da una grande libertà nelle decisioni di carattere organizzative, mentre in Olanda e Germania si ha un continuo rapporto tra legislazione statale e autonomia delle istituzioni universitarie. In Olanda si è assistito ad un radicale processo di modernizzazione del mondo accademico; in Germania le innovazioni (meno radicali) si sono accompagnate al mantenimento di alcune dinamiche precedenti. Caso a parte è quello francese, che più di tutti i paesi europei ha subito i cambiamenti post-68 e ne subisce tuttora gli effetti.
Marino Regini ha individuato quattro problematiche comuni, analizzando come le differenti istituzioni si comportano a riguardo. Sul tema della diversificazione e dell’integrazione delle responsabilità, «in Germania e Francia si assiste spesso a sovrapposizioni e confusione. In Inghilterra e Olanda c’è una netta diversificazione di ruoli e competenze e un’integrazione funzionale, mentre in Francia è in corso un intenso dibattito per realizzare degli aggiustamenti
di tali dinamiche».
Sul ruolo di “filtro” tra gli organi superiori e la base (formata da dipartimenti e facoltà), ad agire in maniera ottimale sono olandesi e inglesi, fondamentalmente «perché i deans hanno ruoli manageriali e sono nominati». In Germania e Francia non funziona altrettanto bene «poiché i presidi vengono eletti con modalità simili a quelle che conosciamo e hanno la tendenza ad aggregare il consenso».
Per quanto riguarda l’esatta dimensione dell’aggregazione delle strutture è difficile trovare una formula esatta che sia ottimale, mentre sul piano della distribuzione delle responsabilità la tendenza generale è per l’accentramento a discapito del decentramento.
«In Olanda e Inghilterra c’è una managerializzazione delle cariche», ha spiegato il prof. Regini. «In Germania e Francia, pur avendo cambiato alcuni assetti, rimangono pratiche caratterizzate dalla persistenza del modello precedente. La domanda è legittima e ce la poniamo in molti: accadrà la stessa cosa in Italia?». Ma non è tutto rose e fiori aldilà dei confini italiani: «in Olanda e Inghilterra c’è difficoltà a trovare gestori che siano adatti al ruolo di manager e abbiano anche competenze accademiche. In Francia e Germania si mantiene opaca la catena di responsabilità, visto che permane l’elettività delle cariche intermedie».
L’analisi del docente milanese è passata al dilemma principale che tutti gli atenei italiani stanno affrontando in questi mesi: «a chi affidare la gestione della didattica. Ai dipartimenti o alle strutture intermedie?». Se la scelta cadesse sui primi avremmo «semplificazione e imputazione certa delle responsabilità, ma è un modello che non si è rivelato vincente». Una struttura intermedia potrebbe avere più successo per «la stessa natura multidisciplinare del mondo accademico». Ad ogni modo, secondo del prof. Regini «l’innovazione cruciale, su cui è necessario molto coraggio, è nella governance centrale degli atenei, non nell’affidamento delle funzioni a strutture periferiche».
L’esposizione chiara, nonostante la complessità dell’argomento e la mole di lavoro che sta alla base del rapporto, ha fornito parecchio materiale d’analisi per i docenti che hanno animato la tavola rotonda successiva.
Massimo Marrelli, rettore dell’Università Federico II di Napoli, è partito da una considerazione: «se chiedessi a 100 docenti quale sia il problema principale dell’università, la quasi totalità mi risponderebbe “i colleghi”». Alla base dei problemi dell’università italiana non ci sarebbe una cattiva organizzazione, ma “pratiche”, comportamenti non corretti: «Manca la fiducia, quindi gli interessi particolari prevalgono su quelli generali. L’esigenza cruciale è quindi stabilire chi è responsabile di cosa, attraverso un modello flessibile e diversificato».
Il professore di Economia ha chiesto coraggio all’Ateneo che presiede, attraverso prese di posizioni responsabili. «Le scelte servono per essere valutati», ha affermato con decisione.
Fiorella Kostoris è una dei commissari dell’Anvur, l’Agenzia sulla valutazione della qualità dell’istruzione superiore e della ricerca, che avrà un ruolo centrale nel nuovo riordino del mondo universitario. «Non esistono in Europa modelli dominanti. Nella estrema varietà di modi in cui affrontare la governance, c’è una correlazione tra il modo in cui si fa valutazione e quello in cui si fa ricerca e didattica» ha affermato. «Sarebbe utile separare la valutazione della didattica da quella della ricerca, come avviene in Inghilterra. L’unico paese in cui c’è un’agenzia simile all’Anvur è la Francia (con l’Aeres, Agence d’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur, Nda). Il sistema inglese – ha proseguito la professoressa – somiglia a quello statunitense, ma la valutazione della ricerca in Inghilterra è affidata ad un’agenzia molto forte e centrale, mentre negli Usa il giudizio è affidato al mercato stesso. Niente a che vedere con un organismo che valuta dall’alto. Da noi un sistema di valutazione all’americana non sarebbe possibile, quindi dobbiamo far funzionare al meglio l’Anvur».
Un punto molto importante è rappresentato dai parametri che verranno utilizzati per la valutazione: «le regole che dovrebbero essere utilizzate sono note da tempo, dal 2004, poiché al momento sono le stesse del Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) numero 2. Se dovessimo cambiare questi parametri, dovremmo perdere tempo per trovarli e farli conoscere. Spero dunque che con i colleghi dell’Agenzia raggiungeremo un accordo».
«Costi e tempi della valutazione sono fondamentali» ha continuato la prof. Kostoris, con un avvertimento: «se la distribuzione dei fondi seguirà il modello anglosassone, in cui solo il 50% “migliore” dei valutati riceve fondi, con un Ffo in caduta libera avremo una serie di situazioni preoccupanti». Su questo punto, anche il rettore Marrelli ha condiviso la stessa preoccupazione. Una soluzione ipotizzata dal docente dell’Università campana è la garanzia di una quota minima di “sopravvivenza” da destinare a tutti e un utilizzo del grosso dei fondi come “incentivo” al miglioramento.
«La legge non ci consente tutti quei gradi di libertà che vorremmo, non è un optional» ha esordito il rettore dell’Università di Catania Antonino Recca. «Dobbiamo stare molto attenti alla riorganizzazione dei dipartimenti» ha affermato riferendosi al tema principale dell’incontro, aggiungendo «non sono convinto che i dipartimenti possano continuare a essere organizzati così come sono». Il Magnifico si è detto pronto alla sfida della valutazione, precisando «non siamo preoccupati dall’assenza di docenti meridionali tra i membri dell’Anvur».
Sembra che proprio la valutazione della ricerca e della didattica sia un pensiero sempre più incalzante. Marino Regini ha posto l’accento sulla probabile scomparsa degli atenei generalisti come quello catanese: «dobbiamo dotarci di organi di governo che siano in grado di operare delle scelte, facendo anche i conti con una valutazione che arriva – necessariamente – a posteriori». Nonostante tutto, sono le scelte che verranno operate e le conseguenze che avranno su docenti, studenti e personale il vero nodo da sciogliere con la massima delicatezza. «Per farlo è necessario individuare le responsabilità», ha concluso Massimo Marrelli.
Fin qui ci siamo attenuti alla cronaca di una giornata che, programmaticamente, si è caratterizzata come un momento di riflessione “alta”: il tentativo di sottrarre il dibatttito sulla riforma dello Statuto dell’Ateneo alla bassa cucina della tutela di interessi consolidati, cordate accademiche e clientele territoriali, alla tentazione di scelte autocratiche imposte e non condivise, alla gattopardesca tentazione di “cambiare tutto affinché tutto rimanga uguale”, al rischio di un’eccellenza proclamata soltanto a parole e di una “virtuosità” contabile che si limiti a tagliare alla cieca; così da produrre un ridimensionamento indiscriminato, senza il coraggio di compiere scelte, senza nessuna capacità di proporre politiche organiche.
Più che “ricette”, la tavola rotonda ha offerto un ventaglio di punti di vista. Da un lato le riflessioni del rettore di Napoli. «Si tratta di sconfiggere la miopia», ha detto Massimo Marrelli. «La miopia, nel gergo degli economisti, consiste nel prevalere degli interessi particolari e di breve periodo sugli interessi generali e di più lunga durata», ha spiegato. E ha concluso invitando a «metterci la faccia». Insomma, ha suggerito che la valutazione non può diventare un feticcio: «La valutazione basata sul passato non consente innovazione e assunzione di responsabilità. Metterci la faccia vuol dire compiere alcune scelte: “mi assumo il rischio di sperimentare questo nuovo corso di laurea”. Si tratta perciò di discutere e possedere una visione di politica culturale per lo sviluppo dell’ateneo. È questo il compito di un rettore ed è su questa base che il vertice di un ateneo dovrebbe negoziare il consenso». Più neutro e prevalentemente analitico il punto di vista di Marino Regini: «In Europa non esistono modelli dominanti, non c’è best practice. La vera innovazione non riguarda le strutture intermedie, bensì la responsabilizzazione delle strutture centrali e la capacità di controllo». Fiorella Kostoris ha inserito nel suo ben documentato intervento questa affermazione: «L’Anvur non dovrà limitarsi alla valutazione delle università. Tra i compiti dell’Agenzia c’è pure quello di valutare il Ministero». E questa è sembrata soprattutto una promessa.
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