Tutte le famiglie felici sono felici allo stesso modo, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Se a dirlo è Tolstoj, all’inizio di un capolavoro come Anna Karenina, è difficile non credergli. Ma Tolstoj non sapeva di calcio e forse, se ne avesse saputo qualcosa, sarebbe giunto, per il calcio almeno, a conclusioni diverse. Perché – per noi almeno che continuiamo ad avere a cuore le sorti della nostra infelice squadra, il Catania – è provato che le cose possono andare diversamente. È provato che si può essere infelici sempre allo stesso modo. E che si possono anche prevedere con discreta esattezza le strade che prenderà il destino per scontentarci con la più ossessiva monotonia.
Così ieri, mentre assistevamo da lontano alla trasferta dei rossazzurri sul campo di Agrigento, ci è capitato di preoccuparci per episodi che, in altri tempi, ci avrebbero fatto guardare l’avversario con l’aria sorniona che ha il gatto quando aspetta che il topo gli cada tra le unghie. Quando il bulgaro Dyulgerov, a quel che s’è visto un rude fabbro prestato al calcio, ha cominciato a picchiare scompostamente ogni nostro giocatore che gli capitasse a tiro; quando, dopo il primo cartellino giallo, ha cominciato ad accumulare occhiatacce e richiami verbali da parte dell’arbitro; quando l’abbiamo visto partire, nella più insulsa trance agonistica, verso uno e poi l’altro dei nostri giocatori che palleggiavano a centrocampo, guadagnandosi un fatale cartellino rosso; in quel momento, diciamolo, abbiamo avuto paura. Perché la prima cosa che c’è venuta in mente non è stato che, giocando in undici contro dieci, il derby – che ci vedeva in svantaggio di una rete a zero – si sarebbe probabilmente raddrizzato a nostro vantaggio. No: ci è venuto in mente che quest’anno c’era già capitato per due volte di sommare al dispiacere della sconfitta l’umiliazione di perdere pur avendo in campo un uomo in più. La prima volta, a dicembre, quando al Massimino giocammo contro il Benevento, e fummo sconfitti in casa per tre reti a una. E la seconda quando al Massimino venne la Casertana: anch’essa capace di portarsi a casa tranquillamente la vittoria pur avendo disputato un discreto spezzone di partita in dieci contro undici.
E nemmeno ci ha illuso il tardivo risveglio della nostra squadra che, negli ultimi dieci minuti, si è rabbiosamente portata sul due a tre. E men che mai il fatto che l’ultimo gol rossazzurro sia arrivato da una punizione dal limite calciata da Nunzella: perché non abbiamo visto che ripetersi, con varianti quasi insignificanti, lo stesso esatto copione – identica l’azione, uguale anche il marcatore – della gara contro il Benevento.
Ed è questo che sconforta: il senso di resa impotente che i nostri giocatori trasmettono a chi li guardi giocare covando ancora, dentro di sé, l’infondato desiderio di vederli diversi da quel che fin qui hanno dimostrato di essere. La puntualità con cui gli avversari ci fanno gol alla prima mezza occasione nella nostra area di rigore. Il fatto che i nostri lentissimi centrocampisti sbaglino l’ultimo passaggio con una ostinazione che sfida la legge dei grandi numeri. La perfezione balistica con cui da qualche mese Calil riesce a mandare fuori dalla porta, da qualsiasivoglia posizione, qualunque pallone che gli capiti tra le gambe. Sconforta l’idea che il Catania continui a interpretare un canovaccio scontato. E poco conta che, negli ultimi mesi, sia cambiato qualche interprete, o che alla regia di Pancaro sia subentrata quella di Moriero. Ieri si è aggiunta, come minima variante, la circostanza che a segnarci per due volte siano stati due ragazzi che avrebbero potuto essere nostri: Andrea Di Grazia, ceduto quest’anno in prestito all’Akragas dopo aver cominciato la stagione in rossazzurro; e Matteo Di Piazza, cresciuto nel settore giovanile del Catania ma animato, a quanto si legge, da un particolare spirito di rivalsa contro la sua ex squadra.
Niente: il sadico sceneggiatore che ha scritto questo pezzo di storia del Catania ha evidentemente deciso che non ci basta perdere. Bisogna anche, come si dice dalle nostre parti, portarla a mala cumpassa. E la cronaca sportiva delle ultime settimane sta lì a dimostrare che giocatori e tecnici, questo triste schema, lo hanno imparato perfettamente.
Della società, a questo punto, è difficile parlare. Almeno finché non si sarà capito quanto ci sia di reale nelle notizie che si inseguono durante la settimana – incontri a Torre del Grifo, cordate benedette dal sindaco, operazioni della proprietà per rendere più appetibile la cessione – e che, salvo imprevedibili colpi di scena, suonano anch’esse come la ripetizione di copioni un po’ stanchi. Posto che, a sette giornate dalla fine del campionato, da eventuali compratori, c’è da attendersi che stiano ad aspettare il peggio, per rilevare la squadra con pochi spiccioli, piuttosto che venire incontro alle richieste della proprietà attuale.
Ma posso sbagliarmi benissimo, su quest’ultimo punto. E sarei molto contento di sbagliarmi.
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