Calcagno, la prigionia e il senso di colpa per il ritorno «Se la tua terra non dà opportunità, devi andare via»

Filippo Calcagno, uno dei due tecnici rapiti in Libia e tornati liberi, riceve Meridionews attorno al tavolo del salotto di casa sua, a Piazza Armerina. Al suo fianco, la moglie Concetta che risponde al telefono e riceve parenti e amici. Ancora molto provato, si emoziona mentre riaffiorano i ricordi. Le sue parole escono a fatica. «Mi sento in colpa per essere tornato vivo», confessa in lacrime.

Perché pensa questo?
«Fausto e Salvatore erano come fratelli. Ora il nostro legame sì è spezzato per sempre. Non poterli rivedere più mi fa stare male, dovevamo tornare a casa tutti e quattro. Durante la prigionia ci davamo forza a vicenda. Ci eravamo ripromessi di farcela, immaginavamo il nostro futuro insieme in Italia, liberi e con le nostre famiglie. Quando io e Gino abbiamo appreso della loro morte siamo rimasti sconvolti».

È riuscito a mettersi in contatto con le famiglie?
«Ho sentito i figli di Fausto che mi hanno fatto sapere che non devo vergognarmi di essere ritornato vivo. Invece ho preferito contattare la vedova Failla tramite la Farnesina per informarla della mia intenzione di essere presente ai funerali del marito. In quegli otto mesi io, Salvatore, Fausto e Gino siamo diventati fraterni amici e confidenti. Vorrei raccontare alla moglie di Salvatore questo periodo, passato insieme, per poterla aiutarla nel suo dolore».

Quando e perché ha iniziato a lavorare per la Bonatti?
«Dopo dieci anni passati negli stabilimenti della Sicilia tra Siracusa e Palermo, un bel giorno, decidono di licenziarmi. Rifiuto la cassa integrazione e mi metto in contatto con un’azienda milanese che si occupa di costruzioni di centrali elettriche. Mi propongono un lavoro in Iran e, d’accordo con la mia famiglia, accetto. I primi mesi sono stati duri: mi ritrovavo in una terra lontana in cui l’unica lingua che parlavo era l’italiano. Poi, nel 2008, dopo il mio rientro dalla Nigeria, firmo il contratto con la Bonatti e parto per la Libia».

Non aveva paura?
«Sì, ma bisognava portare il pane a casa. Dovevo mantenere i miei figli e mia moglie non lavora. Quando la tua terra non ti dà opportunità lavorative, l’unica scelta è andare via. Eppure, se ci penso, forse potevo restare in Sicilia e vivere con poco, piuttosto che rischiare la vita ed essere lontano dalla mia famiglia».

Cos’è la Libia oggi?
«Nella Libia di Gheddafi, fino al 2011, all’interno del campo di lavoro e fuori, ero libero di spostarmi. I problemi sono nati dopo la sua morte. Oggi è un inferno: regna il caos, manca un potere centrale. Tante le bande armate che rivendicano interessi e territori. Attualmente, gli unici impianti attivi sono quelli di Mellittah e Wafa. Gli altri sono tutti chiusi. Sicuramente, questo ci ha esposto a pericoli».

Che lavoro svolgevate per la ditta in Libia?
«La nostra società si occupa di nuove costruzioni e manutenzioni di impianti energetici. Io ero l’addetto al montaggio delle turbine per il generatore dell’elettricità e per pompare il gas, Fausto era un meccanico a capo delle officine, Salvatore era responsabile alle saldature e Gino era capocantiere».

Ci sono responsabili in questa vicenda?
«Sicuramente ci sono delle responsabilità da attribuire, ma preferisco che a chiarire tutta la questione sia la magistratura».

Come inizia il vostro incubo?
«L’auto sulla quale tutti e quattro viaggiavamo per raggiungere Mellitah e Wafa è stata avvicinata da alcuni uomini armati. Inizialmente abbiamo pensato che si trattasse di semplici predoni che avevano intenzione di derubarci, invece, non è stato così».

Cosa ricorda dei giorni della vostra prigionia?
«Ci hanno spogliato di tutto: telefoni, fedi nuziali, vestiti. Prima di portarci nel loro covo, hanno strappato la mia camicia e ne hanno fatto quattro bende per ciascuno di noi. Ci hanno fatto entrare in una piccola stanza. Potevamo comunicare solo a bassa voce. Ogni scusa era buona per picchiarci. All’inizio ci accompagnavano in bagno, poi ci hanno dato un contenitore dove fare i nostri bisogni. Eravamo liberi dalle catene e dormivamo, a terra, su tappeti. Non ci hanno mai separato. I nostri carnefici erano sempre a viso coperto. Dalla nostra stanza, li sentivamo parlare, cucinare, camminare. Da luglio fino a fine novembre siamo stati sempre nello stesso posto. Poi ci hanno trasferito di notte in un’altra località, rimasta la stessa fino al giorno della nostra liberazione».

Che lingua parlavano i vostri sequestratori? Secondo le registrazioni della moglie di Failla c’era qualcuno che conosceva l’italiano.
«Se c’era qualcuno del gruppo che parlasse l’italiano non lo abbiamo mai saputo. Con noi parlavano in arabo e francese. Salvatore aveva lavorato per molti anni in Algeria dove aveva imparato il francese. Era lui a comunicare con i rapitori».

Siete riusciti a capire se il gruppo appartenesse all’Isis?
«Ripeto che non siamo in grado di dire chi fossero i nostri carcerieri. Non li abbiamo mai sentiti pregare. Ci sono sembrati dei comuni delinquenti».

Vi siete mai abbattuti?
«Tante volte, ma la speranza di tornare era più forte. Non abbiamo mai avuto modo di scappare. Erano criminali senza scrupoli. Avevamo paura, pregavamo sempre. Cercavamo momenti di ironia per non impazzire. Ci capitava di sognare amici e conoscenti, ma non riuscivamo a sognare le nostre famiglie, i loro volti. Questo era il nostro cruccio comune a cui non riuscivamo a dare una spiegazione».

Mercoledì 2 marzo, venite separati da Failla e Piano. Cosa è successo dopo?
«Abbiamo salutato i nostri compagni e siamo rimasti soli, ho detto a Gino: “Se riusciamo ad aprire questa porta dobbiamo camuffarci”. Così è stato. Abbiamo indossato delle tuniche con cappuccio che gli stessi rapinatori ci avevano dato e siamo scappati dalla porta esterna che avevano lasciato socchiusa. Siamo arrivati sulla strada con l’intenzione di chiedere aiuto e fortunatamente il buon Dio ci ha mandato qualcuno».

Crede che questa traumatica vicenda si possa metabolizzare?
«Non so come e quando. Oggi, sono devastato, mi sto riprendendo fisicamente, anche se molto lentamente, ma le ferite dell’anima sono molto profonde. È dura».

Concetta Purrazza

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