Buttafuori dei boss o gente che «dà una mano gratis»? «Conoscevo la sua nomina, me lo sono tenuto buono»

«Non ti ricordi quello che è successo, che ti abbiamo distrutto il locale? D’ora in poi provvediamo noi a gestire sia il locale che la sicurezza, altrimenti distruggiamo tutto». A parlare così è il 28enne Gaspare Ribaudo. È il 2014 e quella sera, quando incontra per strada il figlio del gestore di un locale di via Messina Marine non si limita a rivangare i vecchi trascorsi. La minaccia diventa presto più violenta, specie dopo che il ragazzo gli dice di essere un poliziotto: «Si sbirru, ora sai chi siamo noi. Ti ammazzo – dice -, ti ammazzo, ti levo dalla terra», e gli tira addosso un portatovaglioli e una bottiglia di birra. Ribaudo, del resto, ha una reputazione che nell’ambiente lo precede. E basta a spianargli la strada, anche fuori da Palermo. A Bagheria, per esempio.

«Lo conoscevo da prima del 2014, di nomea. Mi avevano detto che spesso creava liti all’interno dei locali. Motivo per cui me lo tenevo buono, gli offrivo la birra quando veniva al locale e cose simili – racconta un gestore -. Era una mia scelta volontaria, ero consapevole che avrebbe potuto crearmi problemi». Ribaudo e i suoi passano l’intera estate 2014 fuori da quel locale, «talvolta davano anche una mano quando succedevano dei disordini», spiega ancora agli inquirenti quel proprietario di uno dei locali sui quali ha messo le mani Cosa nostra. Lui, come tutti gli altri, non lo denuncia e agli inquirenti anzi precisa di non aver mai dato soldi né a lui né al padre, che aveva preso il posto del figlio l’estate successiva. Solo qualche birra, qualche cocktail, niente di più. In fondo quei due «davano solo una mano dentro al locale, spontaneamente». Spostano transenne, rimuovono i cocci dei bicchieri, sedano le risse con le buone. «A volte facevano entrare nel locale dei propri amici, ai quali mi chiedevano di offrirgli da bere». È mafia, insomma, o solo l’atipico caso di persone perbene vogliose di darsi da fare gratis in cambio di qualcosa da bere?

Di lì a poco Ribaudo finisce dentro. Gestori e società di vigilanza – che temendo violente ritorsioni si accollano i dieci euro da corrispondere per ogni buttafuori imposto – tirano un sospiro di sollievo, ma dura poco. A reclamare gli stessi servigi, successivamente, è infatti Toni Ribaudo, il padre del 28enne: «Devo per forza lavorare qui come sicurezza, devo campare mio figlio arrestato e detenuto». E non solo. «Queste persone ti porteranno dei grossi problemi, ti ricordo che la legge non ammette ignoranza»: con questa premura l’amministratore di una società di servizi di sorveglianza tenta di dissuadere il gestore di un altro pub preso di mira dall’organizzazione. E le persone dalle quali lo vorrebbe mettere in guardia non sono esattamente tipi qualunque. È gente che se di Cosa nostra non fa esplicitamente parte, ne è comunque amichevolmente vicina. «Io me li devo tenere perché li devo garantire», replica il gestore, rassegnato a subire l’imposizione mafiosa di quei fedelissimi all’interno dei locali della movida.

Non c’è solo Palermo, però. Nell’elenco di Cosa nostra ci sono anche alcuni locali notturni della provincia, da Bagheria a Ficarazzi, passando per Casteldaccia e Terrasini. All’opera c’è una vera e propria banda. E in cima il nome che spicca è quello del 47enne Massimo Mulè, che in una nota discoteca del centro di Palermo, molto in voga negli anni passati, impone suo cognato, Vincenzo Di Grazia, finito anche lui in manette. Per riuscirci, incarica del compito i fratelli Catalano, Andrea e Giovanni, che con la proprietaria del locale non usano mezzi termini: «A me non mi interessa niente, tu mi devi mettere a Vincenzo! Chi ti resta fuori ti resta fuori!». Andando più sul pesante con l’altro gestore: «Ti spiego una cosa meglio…tu hai due figli, vero? Sono la tua vita, vero? Il signore ci deve guardare i tuoi figli e i miei figli!». È il dicembre 2016, e dopo quelle conversazioni, intercettate dagli inquirenti, Di Grazia diventa improvvisamente una presenza fissa di quel locale. A manovrare i fili, dietro le quinte, c’è il più rodato Mulè, appunto: condannato a febbraio 2019 a sei anni in appello per associazione mafiosa, viene descritto dagli inquirenti come l’alter ego del defunto boss Gaetano Lo Presti, all’epoca reggente del mandamento di Porta Nuova. E lui a sua volta reggente, insieme al fratello, del quartiere Ballarò, secondo i racconti di diversi collaboratori di giustizia, da Francesco Chiarello a Vito Galatolo.

La sua influenza è talmente forte anche su quei fratelli Catalano che di Cosa nostra non fanno direttamente parte, che può permettersi persino il lusso di stabilire a che ora debbano aprire i locali in cui lui impone i suoi fedelissimi, qualora avesse voglia di farsi un aperitivo. «Dicci che apre alle sei», «Pure alle cinque gli possiamo dire, tu fammi fare a me», gli risponde infatti il servile Andrea Catalano, a sua completa disposizione. E poi c’è il 46enne Cosimo Calì, uno che dice subito di essere diverso dagli altri, «Io non è che sono Andrea Catalano che faccio minacce…Io dall’anno nuovo faccio la guerra. Io non mi metto di lato, per me ci possiamo fare la guerra». Lo dice in occasione della serata per festeggiare capodanno 2017 in una villa in città. Un atteggiamento violento, minaccioso e arrogante, che esibisce l’intenzione di arrivare anche allo scontro fisico: basta tutto questo per terrorizzare i malcapitati di turno, che scelgono di cedere così alle imposizioni di Cosa nostra.

«Se continuate in questo modo avrete vita breve», si sentono più volte dire i gestori della sicurezza che tentano di opporre resistenza. Così’ bastava far riferimento ad Andrea Catalano e alla sua squadra di buttafuori per fare cessare immediatamente ogni intrusione e disordine all’interno dei locali. Eppure c’è chi prova a opporre resistenza, anche tra i titolari delle attività. Come quello di un bar di Bagheria, dove gli uomini della banda fanno accadere diversi episodi di disturbo per attirare le attenzioni del gestore. Un giorno aggredendo un cliente del bar; un’altra volta parlando a voce deliberatamente alta di una presunta lite da fare, incutendo timore e ansia nei dipendenti; un’altra volta ancora consumando bevande per 200 euro e andando via con la promessa di saldare il conto nei prossimi giorni, senza però mai farlo; oppure, cominciando a disturbare insistentemente una coppia seduta a un tavolo tirando addosso alla ragazza briciole di pane, salatini e patatine, innescando per stremo la reazione del fidanzato e facendo, poi, scappare tutti i clienti del locale, messo a soqquadro tirando da ogni parte tavolini e sedie.

Quella coppia di fidanzati in quel bar non ci entrerà più, una scelta fatta in seguito da molti altri clienti affezionati del locale. Fino alla pretesa di pagare due euro una birra che, da menù, lì costa tre e cinquanta: «Tu non lo sai a chi appartengo? Appartengo a Gaspare Ribaudo, siamo tutta una famiglia. Non ti ricordi con chi sono venuto qualche mese fa a mangiare e me ne sono andato senza pagare? – dice a pochi centimetri dalla faccia del titolare il 24enne Emanuele Cannata, arrestato anche lui -. Io le risse le faccio quando voglio! Qui sono tutte cose mie, il locale è mio». Si interrompe solo perché un cliente appena entrato al bar lo urta e scatena tutta la sua violenza: Cannata rompe una bottiglia di vetro su un tavolino e colpisce in testa il giovane, che stramazza a terra, mentre lui continua a colpirlo con calci e pugni. Il titolare tenta di fermarlo e viene picchiato anche lui: «Tu lo sai che sei morto! Domani veniamo con i grossi», l’ultima minaccia.

Insieme a Cannata c’è spesso anche un certo Luca ‘u nivuru, che risponde al nome di Emanuele Rughoo Tejo, uno dei sopravvissuti della tragedia di Casteldaccia dello scorso 3 novembre, finito pure lui in manette. È anche uno dei candidati al consiglio comunale alle amministrative di Bagheria del 2018, nella lista dell’attuale sindaco Filippo Maria Tripoli. La cui amministrazione comunale, correndo ai ripari, fa sapere adesso che all’epoca «non risultava alcuna incompatibilità con la sua candidatura. Prendiamo le distanze da ogni azione che non sia incentrata sulla trasparenza ed il rispetto delle norme». 

Silvia Buffa

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