Non nasconde il timore. Anzi lo dice a chiare lettere. «La verità sulla trattativa si allontana». Perché quella sentenza pronunciata ieri dal gup Marina Petruzzella nel processo stralcio sulla trattativa Stato-mafia che scagiona l’ex ministro Calogero Mannino lascia a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice ucciso dal tritolo di Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, l’amaro in bocca. Dice di «attendere le motivazioni», che il giudice depositerà entro 90 giorni, eppure non nasconde un’amarezza mista a rabbia. «Assolto per non aver commesso il fatto» recita il dispositivo letto in Aula dal giudice durante il rito abbreviato. Una sentenza storica, la prima di quell’indagine, avviata nel 2008 dalla Procura di Palermo e che negli anni ha chiamato in causa i piani più alti della prima Repubblica.
«Mannino era un imputato fondamentale – dice adesso a MeridioNews Salvatore Borsellino – e trovo anomalo il rito abbreviato». Il motivo lo spiega lui stesso. «La sentenza di un giudice unico potrebbe condizionare pesantemente quella che sarà la decisione della corte nel processo padre». A lasciarlo «perplesso», insomma, è la scelta di «un binario parallelo», soprattutto quando a chiederlo è «un imputato chiave per l’impianto accusatorio principale».
Un dubbio legittimo. Un timore di molti. Sussurrato nelle aule del palazzo di giustizia. Temuto dal fondatore delle Agende rosse. Ne basta a rassicurarlo la tesi di Antonio Ingroia, che del processo trattativa è stato il padre. Per lui la tesi dei pm palermitani sull’esistenza di un patto scellerato tra mafia e Stato resta in piedi. «Il giudice dice che la trattativa c’è stata, il reato esiste, ma non fu compiuto da Mannino, a carico del quale non ci sono elementi» ha spiegato ieri a MeridioNews.
«Ingroia dà sulla sentenza un parere più autorevole del mio e le sue parole mi consolano – prosegue Salvatore Borsellino -, ma questa sentenza mi ha colpito». E non in positivo. Certo, c’è ancora l’appello, ma l’assoluzione «ha un suo peso». Resta poi una convinzione personalissima, quella di «un privato cittadino, che dunque non ha valore davanti alla legge», la convinzione di una colpevolezza. «Per me Mannino fu coinvolto, mosse le prime pedine» di quella trattativa, della cui esistenza Salvatore Borsellino resta «profondamente convinto». Un patto scellerato a cui il fratello si oppose, decretando la sua condanna a morte. «Paolo fu ucciso per essersi messo di traverso a questa trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, che una congiura del silenzio durata oltre vent’anni ha nascosto».
«Sono stato perseguitato da un capriccio accusatorio» messo in piedi da alcuni pubblici ministeri che «si muovono per pregiudizi e ostinazione» ha detto Mannino commentando a caldo la sentenza. Accuse pesanti davanti alle quali Borsellino non si sconvolge. «Siamo abituati a questi tipi di commenti. Berlusconi ci ha abituato all’attacco ai pm e alla giustizia. Si spara sulla Croce rossa e già sento levarsi un coro di voci contro la magistratura politicizzata». E le parole durissime su Di Matteo? «È un tiro al bersaglio iniziato da tempo. Nei confronti del pm condannato a morte dalla mafia non ho sentito nessuna parola di solidarietà né da parte delle istituzioni, né dalla stampa né tanto meno dal Csm».
«Aspettiamo le motivazioni» ripete come un mantra. «Negli anni ho imparato a stemperare i miei sentimenti – spiega – e sentenze come questa mi invogliano a impegnarmi ancora di più nella ricerca di verità e giustizia in un Paese che verità e giustizia non sa darle». Sul futuro non è ottimista, però. «Gli anni che mi restano da vivere non mi permetteranno di vedere scritta la parola fine su questa vicenda. Ma cercherò fino all’ultimo respiro, come ho promesso a mia madre, di mantenere viva la memoria di Paolo, cercando la verità». Un traguardo difficile soprattutto in un Paese in cui «la lotta a Cosa nostra non è mai stata corale, ma delegata ai singoli, un Paese in cui mafia e Stato continuano ad avere punti di contatto e obiettivi simili». Una contaminazione che resiste ancora oggi, almeno secondo Salvatore Borsellino. «I livelli di corruzione dilagante sono il segno della metastasi». Di un cancro chiamato mafia.
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