Borsellino, 25 anni dall’ultimo discorso pubblico Agostino: «Basta chiacchiere, vogliamo i fatti»

«Quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto qual è stata la statura di Giovanni Falcone, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, con quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera, che bollava me come un professionista dell’antimafia e l’amico Luca Orlando come professionista dell’antimafia nella politica». Iniziava così l’ultimo discorso del giudice Paolo Borsellino, almeno secondo le registrazioni rimaste di quel giorno. Era il 25 giugno del 1992 e si trovava nell’atrio della biblioteca di Casa Professa, a Ballarò. Un cortile gremito di gente, cittadini angosciati, stravolti dalla tragedia che aveva appena fatto tremare la città intera, sismografi compresi, solo 34 giorni prima con la strage di Capaci. A Borsellino, invece, ne restano ancora ventiquattro di giorni, prima di saltare in aria sotto casa della madre, in via D’Amelio. Venticinque anni dopo, però, lontano da retoriche e commemorazioni di rito, quella folla non c’è più, e a riascoltare le sue parole registrate c’è solo un numero ristretto di interessati.

L’iniziativa, che da sei anni viene organizzata dall’Associazione cittadina per la magistratura, rappresenta un momento importante per la città, malgrado sia rimasto dimenticato dai palermitani per circa vent’anni. «Ci hanno detto che volevamo solo fare passerelle, ma non è mai stato così, a noi interessa fare memoria e quindi imperterriti abbiamo continuato – spiega Liborio Martorana – E oggi non potevamo fare altro che ritrovarci per rinnovare il nostro impegno e dare voce a quei cittadini che 25 anni fa erano seduti qui dove oggi vi trovate voi». Un atrio dedicato infatti alla memoria a Paolo Borsellino e a quel famoso ultimo discorso pubblico, inciso in parte su una lapide. «Questo luogo è uno scrigno della memoria – gli fa eco la direttrice della biblioteca, Eliana Calandra – Stiamo coltivando la memoria collettiva, non è un’operazione sterile ma un’occasione per progettare insieme il nostro futuro». A scandire gli interventi del pubblico sono i brani del cantautore palermitano Eugenio Piccilli e una recita realizzata dai piccoli alunni dell’istituto comprensivo Francesco Riso di Isola delle Femmine.

«Venticinque anni fa io ero qui, però il palco era di lato rispetto a dove si trova oggi. Stavo seduto dietro quella colonna sulla sinistra». È ancora nitido il ricordo di Vincenzo Agostino, il padre dell’agente Nino Agostino, ucciso a Villagrazia di Carini il 5 agosto 1989, insieme alla moglie incinta Ida Castelluccio. Un delitto avvenuto sotto ai suoi occhi e ancora oggi rimasto insoluto. «Riascoltare questo discorso di Paolo mi fa pensare moltissimo – dice – Mi fa pensare che esiste un certo livello a cui può arrivare la magistratura, un limite entro cui può frugare. Oltre quel limite non può condannare nessuno, per via della protezione garantita dai cosiddetti colletti bianchi. Non so se io e mia moglie vedremo questa giustizia, potrebbe essere un evento per Palermo». Una giustizia che per 28 anni è stata negata, che ha impedito loro anche di guardare gli ultimi appunti lasciati dal figlio. «Arnaldo La Barbera e i suoi tirapiedi mi hanno mostrato una fotografia subito dopo l’omicidio di Nino, era del finto pentito, Vincenzo Scarantino – ricorda – Mi dicevano “può essere che è questo?” E io continuavo a dire di no, ma loro insistevano. Io cercavo una persona brutta, purtroppo ho riconosciuto quella sbagliata nel carcere di Termini Imerese, a nulla è servito rettificare- dice ancora Agostino – dire che avevo commesso un errore, doveva essere quella persona e basta».

Il riconoscimento decisivo, per Vincenzo Agostino, arriva molti anni dopo. Arriva il 26 febbraio 2016 nell’aula bunker dell’Ucciardone, quando in un confronto all’americana riconosce nell’ex agente della mobile in pensione, Giovanni Aiello, l’ormai famoso faccia da mostro. In lui riconosce una delle due persone che settimane prima del delitto era andata a Villagrazia di Carini a cercare il figlio. «Perché questa magistratura non cerca questi colpevoli? Perché si pagano loro stipendi d’oro, se non fanno il proprio dovere? Noi cittadini dobbiamo ribellarci a questo, perché solo con un governo onesto un giorno i bambini di oggi potranno avere un futuro. Ma giorno dopo giorno io vedo solo il buio – conclude – Dobbiamo scendere noi in massa sotto questi palazzi della giustizia e della politica e dire che non vogliamo più chiacchiere, ma fatti. Vogliamo fatti».

Silvia Buffa

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