Bolzoni a Librino: «No agli slogan dell’antimafia»

La mafia e l’antimafia, che oggi «si fa con la conoscenza, non urlando slogan». I «colletti neri» e lo Stato che ha qualche piccola parte oscura che ha messo la mano nelle stragi e nei delitti eccellenti, il Capo dei Capi e la vita da mafiosi, la lotta e il sacrificio degli «uomini soli» di forze dell’ordine e magistratura, il destino segnato dei cosiddetti uomini d’onore. E poi il mestiere del giornalista, l’impegno e anche la paura, un mestiere in cui si è chiamati a raccontare «quello che succede nel territorio in cui lavora, anche le cose belle, come l’ultimo intervento della Fiumara d’Arte che ha tappezzato Librino delle foto con i volti degli abitanti». 

È stato un confronto intenso e molto partecipato quello di ieri fra il giornalista e scrittore Attilio Bolzoni, 40 anni di carriera spesa a raccontare fatti, personaggi e inchieste di mafia, e gli studenti dell’Istituto Comprensivo Vitaliano Brancati assieme a un paio dell’Istituto Musco che hanno affollato l’aula magna del plesso di viale Biagio Pecorino, nel quartiere di Librino. L’incontro con l’ex inviato di Repubblica autore di molti libri di approfondimento, è nato nell’ambito delle attività promosse dal progetto Le Voci di Librino, realizzato dall’associazione Catania Labin collaborazione con Mosaico Cooperativa Sociale, Talità Kum, Impact Hub e già attivo nel grande rione catanese da circa un anno e mezzo. L’incontro con Bolzoni è stato realizzato in collaborazione con l’associazione culturale Le Parole e Le Cose.

Sin dalle prime battute è stato un dialogo serrato, con il giornalista che ha preferito prima fare lui le domande, piuttosto che riceverle. Chi sa cos’è la mafia, chi sa cosa vuol dire? Subito si sono alzate le mani dalla platea e sono arrivate risposte pertinenti. Bolzoni ha spiegato le origini e raccontato la storia recente di Cosa Nostra, il rito di affiliazione, i tempi «della guerra di mafia che insanguinava Palermo quando ho cominciato a fare il cronista al giornale L’Ora. Non sapevamo quali fossero le fazioni in lotta, li chiamavamo semplicemente i “vincenti” e i “perdenti”, questi ultimi quelli che morivano. In redazione ci mandavano a raccontare gli omicidi e la cosa più struggente e difficile, per noi alle prime armi, era dover andare a chiedere alle famiglie degli uccisi una foto da vivo del morto ammazzato. In quei momenti pensavo che non avrei potuto farcela a fare questo mestiere». 

Così gli esordi per un ragazzo originario di Caltanissetta, che aveva provato a studiare all’Università, a Catania, senza concludere gli studi. Inevitabile nella chiacchierata toccare le corde delle fiction televisive, visto che proprio Bolzoni è l’autore del libro (con il compianto Giuseppe D’Avanzo) Il Capo dei Capi, la storia di Totò Riina divenuta uno sceneggiato tv che ha lasciato anche uno strascico di polemiche. «Molti a scuola vedevano Riina come un eroe», ha rilevato una professoressa. Tra gli studenti presenti in aula c’è chi ha chiesto: in tv è stato stravolto il libro o è stato un racconto fedele?». Bolzoni ha rivelato che la narrazione è stata molto cambiata, che Riina e compagnia corleonese erano ignoranti ma intelligenti e che la loro non era neanche una bella vita. «Perché lo fanno? Per il potere, per poter decidere sulla vita o sulla morte delle persone. Però – ha sottolineato il giornalista – non conta tanto il fatto che la tv o il cinema stravolgano le cose, facciano apparire eroi i criminali. L’importante è avere i mezzi culturali, essere capaci di discernere che quello è un prodotto artistico, ma che la realtà è ben diversa».

È arrivata poi da una studentessa una domanda secca sull’antimafia. «”La mafia è una montagna di merda” – ha riposto Bolzoni – lo gridava 40 anni fa un ragazzo che si chiamava Peppino Impastato. Era un grido rivoluzionario, ma oggi dire che la mafia fa schifo piace e fa comodo anche ai mafiosi. Si sono appropriati delle parole dell’antimafia, tanto che adesso c’è una nuova figura: l’antimafioso. Allora dobbiamo andare oltre le parole. Studiate, informatevi. Fare antimafia oggi significa essere cittadini consapevoli, non è urlare slogan, è consapevolezza. Io da parecchi anni non vado più alle manifestazioni del 21 marzo perché questa “predicazione” non mi piace, anche se mi rendo conto che possa essere in qualche modo utile la partecipazione delle scuole. Aggiungo anche che dagli anni delle stragi in poi sono stati spesi fiumi di denaro per progetti di educazione alla legalità nelle scuole, ma chiedo anche agli insegnanti: si sono prodotti effetti concreti? Secondo me bisogna cambiare tutto, qualcosa non ha funzionato».

(Fonte: Le Voci di Librino)

Redazione

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