La stringente esigenza di un ritorno al passato. È quanto emerge dalle indagini dell’operazione Black cat, fatte di pedinamenti tramite gps e intercettazioni ambientali, che hanno portato all’arresto oggi di 33 persone nel Palermitano, con l’accusa di associazione mafiosa. Di queste 24 sono già finite in carcere, mentre le restanti nove si trovano ai domiciliari.
Le intenzioni dei mandamenti – secondo gli investigatori gestiti da Diego Rinella a Trabia e da Francesco Bonomo a San Mauro Castelverde – sarebbero state quelle di rimettere ai vertici delle varie famiglie persone anziane con una certa esperienza, isolando i membri ritenuti più inaffidabili, i libertini. Gli accordi sono, quindi, quelli di tornare alla gestione mafiosa di vent’anni prima: «Ci sono i cani sciolti… È da vent’anni che… E le persone le hanno già prese», dice in un’intercettazione del 22 gennaio 2013 Stefano Contino mentre parla con Gandolfo Maria Interbartolo, entrambi coinvolti nell’inchiesta. Avrebbero allora pensato di collocare ai vertici i vecchi esponenti, quelli in grado di dare maggiori garanzie: «Minchia dice si riprende di nuovo la cosa, all’antica!», risponde infatti Interbartolo.
Servono, insomma, «cristiani all’antica», per dirla con le parole di un altro indagato, Michele Serraino. Sono i vattiati, gli storici capi famiglia ritualmente affiliati a Cosa nostra. «In tutti i paesi stanno prendendo quelli vattiati», dice ancora Interbartolo, intercettato in una conversazione il 14 gennaio 2013. Pericoloso affidarsi a gente che, al contrario, non fa «scruscio, né sciauro e mancu feto». Uno stratagemma discusso e condiviso da tutti i personaggi coinvolti nell’indagine, volto a rispolverare il vecchio metodo estorsivo, basato sull’intimidazione o il danneggiamento – soprattutto per mezzo degli incendi -, per indurre l’imprenditore di turno a rivolgersi al referente mafioso della zona dove sta eseguendo i lavori. Ma tornare al vecchio regime significa anche recuperare gli antichi metodi. Violenza compresa.
È per questo che i mandamenti di Trabia e San Mauro Castelverde si distinguono anche per una grossa quantità di armi: «Ho l’impressione che ci dobbiamo mettere le armi in mano», si sente dire a Michele Modica il 12 ottobre 2012 in una conversazione in macchina con Antonino Vallelunga. E qualche giorno dopo, ancora: «Te ne interessano ferri?», dice a Giacomo Li Destri in un’intercettazione del 15 ottobre 2012 Mario Rosolino Cascio, presunto fornitore di armi da fuoco delle famiglie mafiose. Pare che Cascio si appoggiasse a persone di origine libica, riuscendo a ottenere anche armi di notevoli dimensioni o da guerra: bazooka, mitragliette, kalashnikov.
Armi, minacce e violente intimidazioni avrebbero contribuito a generare in poco tempo un clima di forte paura nell’hinterland del Palermitano nel quale operavano gli indagati. «Le persone hanno paura». Più antica, ma ugualmente significativa anche la rassicurazione di Salvatore Falica a Luigi Giovanni Barone: «Ma no che lo devono acciuccare. Per fargli mettere paura, capisci», dice in una conversazione in auto, a proposito dell’iniziale progetto per uccidere Salerno Nicasio, lo sciancato. Non è un caso, infatti, che a causa della facilità con cui si sarebbe fatto uso di violenza, tutti gli imprenditori e i commercianti operanti nelle zone dominate dai due mandamenti mafiosi non abbiano mai denunciato i loro aguzzini. Un clima di paura tale da rendere impensabile una eventuale azione alternativa alla sottomissione al potere mafioso.
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