Black Axe, il racconto in aula di torture e sevizie «Le aggressioni duravano addirittura giorni interi»

Torturato per un giorno intero, si è salvato solo dopo che i vicini di casa hanno sentito le sue urla disperate. Ma calci, pugni e sevizie sessuali erano durate per oltre 24 ore, già. A raccontare la storia di Afube Musa di fronte alla prima corte d’assise di Palermo è un testimone d’eccezione. Qualcuno che, fino a poco tempo prima, quelle scene le aveva forse viste spesso, a volte anche partecipandovi. È Austine Johnbull, membro della cosiddetta Black Axe, la mafia nigeriana, condannato lo scorso maggio a due anni e otto mesi in abbreviato per il suo ruolo nell’associazione criminale e ascoltato in aula nelle vesti di imputato per reato connesso. Non c’è, lui, nel commando che se la prende con quel nigeriano salvato dai vicini. A raccontargli di quella tortura sarà, un paio di anni dopo, un compagno di cella al Pagliarelli che al contrario di Johnbull ha partecipato, eccome. È Ibrahim Yusif, condannato anche lui in abbreviato quattro mesi fa a 14 anni. «Mi ha spiegato esattamente quello che era accaduto – dice in aula il teste -. Io sapevo già dal 2014 di un nigeriano picchiato malamente, era uscito sui giornali, ma non ho mai approfondito i motivi e poi sono stato arrestato».

E il suo racconto parte da molto lontano, dal febbraio 2014. I protagonisti sono il nigeriano Atu Innocent e la moglie, che a Palermo dal 2014 vivevano spacciando: «Avevano un chilo di cocaina. Mezzo chilo di questa doveva arrivare a Siracusa», racconta il teste. Partono per recapitare la robba la donna e un altro conoscente della coppia, proprio Afube Musa. Qualcosa, però, va storto. Arrivati a Siracusa vengono aggrediti da un gruppo di italiani, che porta via con sé il mezzo chilo di cocaina. I due fanno quindi ritorno a mani vuoti: i soldi non ci sono, perché la sostanza è stata rubata. Atu Innocent non crede, però, alla versione del connazionale, credendolo un complice dei banditi italiani che lo avevano rapinato. Decide di vendicarsi per cercare di farsi restituire il denaro dovuto e per farlo si mette in contatto con il cosiddetto Bishop, capo picchiatore del gruppo e unico suo tramite con il resto della Black Axe. «A casa di Atu Innocent sono subito arrivati in quattro, hanno iniziato a picchiare Afube Musa senza fermarsi». Nel commando ci sono Matthew Edomwonyi, detto Tobaba, Alaye Obas Samson, detto Baloo, Sylvester Collins e ovviamente il picchiatore Bishop.

«La moglie si è messa subito a gridare e a piangere, implorava di lasciarlo stare – racconta il testimone -. Ma loro volevano mettergli pressione per riavere i soldi». L’atteggiamento della donna, però, rischia di fare saltare in aria la spedizione punitiva. Il gruppo decide quindi di portare il nigeriano in un posto più tranquillo, per poter continuare il lavoro. Qualche minuto dopo la scena è sempre la stessa, ma questa volta siamo nel retrobottega di un bar nel vicoletto Sant’Orsola, a Ballarò. «Hanno iniziato a colpirlo con una frusta di pelle per farsi dire la verità, ma gli davano anche schiaffi e calci. Lui piangeva, mentre gli altri bevevano e continuavano ad aggredirlo, non si rendevano conto di cosa stavano facendo». Ed è a questo punto che il racconto in aula di Johnbull diventa più cruento e tremendo. Quando cioè gli aggressori della Black Axe, e insieme a loro anche Atu Innocent e Ibrahim Yusif, decidono che la violenza inflitta fino a quel momento non è stata sufficiente. Che è arrivata l’ora di spingersi oltre.

«Con un bastone di scopa in mano, hanno preso di peso Afube Musa e lo hanno portato in bagno. Non sono sicuro, ma penso che lo abbiano usato per infilarglielo nelle parti private – fa una pausa, non parla per una manciata di secondi che sembrano interminabili e poi riprende -, sì insomma…glielo hanno messo nell’ano. So per certo che gli hanno infilato qualcosa anche nel pene». È il limite massimo. La vittima è dolorante, si lamenta, chiede di essere portato all’ospedale ma promette di non raccontare quello che gli hanno fatto. Ma nessuno lo lascia andare. «Lo hanno portato via solo di notte, quando il bar doveva chiudere. Ma non lo hanno liberato, lo hanno ripotato a casa di Atu Innocent». È lì che la mattina dopo le torture e le sevizie riprendono puntuali.

«Hanno cercato in tutti i modi di ottenere qualcosa da lui, ma non ci sono riusciti. Gli hanno tolto il telefono ma lui ha cominciato a gridare, attirando l’attenzione dei vicini di casa che erano italiani e che hanno chiamato i carabinieri, che sono arrivati poco dopo. Ma Atu Innocent e gli altri si erano ormai dati alla fuga – dice il teste -. La tortura è durata un’intera giornata, lui è stato liberato solo il giorno dopo». La vittima però non era mai stata prima di allora a Palermo, non conosceva le strade e non aveva mai visto prima di quel giorno i suoi aggressori, «non poteva dare un nome e cognome, non li sapeva. So che sono stati processati alla fine Atu Innocent e la moglie per l’aggressione. L’avvocato che li rappresentava aveva chiesto a Ibrahim Yusif, il mio compagno di cella che mi ha raccontato tutto, di testimoniare ma lui, oltre ad aver partecipato alle torture, nemmeno un mese dopo da quell’aggressione aveva incontrato il nigeriano alla stazione ed era stato riconosciuto. Quindi si è rifiutato, non voleva essere coinvolto».

Ma tutte le persone che hanno preso parte a questa brutale aggressione due anni dopo sono comunque finite dietro le sbarre. A loro si aggiungono gli altri membri della Black Axe, di cui quattordici condannati in abbreviato mesi fa. Mentre cinque stanno affrontando il rito ordinario. L’esame di Johnbull continuerà a fine settembre.

Silvia Buffa

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