Beyty-l’identità ricostruita altrove

Chiara Russo, mediatrice linguistica, da anni si occupa dell’insegnamento dell’italiano a stranieri, impegnata nel terzo settore del sociale e dell’accoglienza. Studiosa e curiosa delle lingue e delle loro interconnessioni. Mi diverte andare a capire l’origine anche del dialetto siciliano, delle tradizioni siciliane, non solo dell’italiano in sé, e ciò si rispecchia in questo contenuto che ha anche un po’ di studio antropologico.

Nella foto in copertina si vede un tipico paesaggio della zona del Ragusano. Un luogo in cui non sono nata ma che mi ha ospitato per quasi dodici anni. Se si ha la
fortuna di abitare poco distante dalla città, questa è la meraviglia che ti sveglia la mattina
aprendo le finestre o semplicemente durante la pausa pranzo in ufficio. I muretti a secco, il
cielo limpido, le balle di fieno, gli ulivi e i carrubi. Ma probabilmente tutto questo lo sapete
già (e qui, oltre all’insegnante di geografia, ringraziamo anche Montalbano) ma
permettetemi la premessa romantica. Durante le mie pause pranzo, venivo spesso
accompagnata dai miei studenti stranieri arrivati in Italia da pochi mesi. Ogni giorno si
provava a chiacchierare un po’ ma in che modo? Spesso non esistevano lingue veicolari e i
gesti o le parole farfugliate in un comico italiano non riuscivano a far progredire una sana
conversazione. E allora spesso si restava in silenzio, mangiando ognuno il proprio panino. 

È qui che finisce la premessa e inizia la storia: un giorno di giugno di qualche anno fa arrivò,
nel centro di accoglienza dove lavoravo, un ragazzo di nazionalità palestinese vissuto tra
Siria e Libano. Un tipo molto stravagante con i capelli lunghi, i jeans strappati, pieno di
tatuaggi e con una passione smodata per ogni tipo di arte. Dopo la prima lezione di lingua
italiana L2 arrivò la mia pausa pranzo e, come sempre, andai in cortile insieme a tutti gli
altri ragazzi. Lui mi seguì incuriosito portando uno zainetto con album da disegno, matite e
due o tre colori. Arrivati in cortile gli dissi di sedersi accanto a me ma lui continuò a
camminare dritto guardando qualcosa che non capivo
. Questa volta la curiosa ero io e, senza
album ma col panino al salame, andai con lui. Mi fece prima arrampicare sul muretto a secco
e dopo continuammo a camminare per un’altra ventina di metri tra l’erba secca e con i piedi
pieni di terra. Mi prese per mano: era nervoso e io, a quel punto, più di lui. Mi portò sotto un
maestoso carrubo. Fece cadere il suo zaino per terra e toccò la corteccia. Dopo mi guardò e
disse Beyty che in arabo significa casa mia
. La mia prima reazione fu di incredulità. Come poteva il carrubo rappresentare casa sua? Nel
mio immaginario (potrei anche generalizzare dicendo ‘nostro immaginario’ ma non rischio)
il carrubo è roba tipica siciliana o al massimo condivisa con i Paesi dell’Africa del nord. Ma la
Palestina non mi sembrava una cosa possibile. Anche quando mi disse il nome del carrubo
in arabo al-kharrūb non ne fui molto sorpresa. La dominazione araba e i contatti tra
mercanti arabi e latini hanno favorito la diffusione di numerosi elementi lessicali di origine
semitica. Per questo motivo ho pensato immediatamente ad un prestito linguistico diretto,
avvenuto per vie orali tramite contatto in zone mistilingue. 

La storia che vi ho voluto raccontare è stata lo spunto per la mia analisi in chiave
antropologica.
Il mio studio ha avuto inizio con un’analisi puramente linguistica che mi ha offerto molti
spunti interessanti. Partendo da una semplicissima comparazione della parola carrubo in
alcune lingue europee, scopriamo che in spagnolo e portoghese il termine si traduce
rispettivamente in Algarrobo e Alfarroba. Non è un caso che nelle lingue romanze la
terminologia sia molto simile e di facile intuizione
. Nelle lingue germaniche però il termine
non è più molto riconoscibile considerando che in inglese si traduce in locust tree o carob
tree
e in tedesco in johannisbrotbaum. In questo caso la radice è da ricavarsi dalla
religione Cristiana. Nei Vangeli di Matteo e Marco si legge che San Giovanni Battista (nonché
profeta Yahya secondo la religione islamica) si sia cibato di locuste durante un periodo
trascorso nel deserto. In effetti, San Giovanni non si cibò di locuste ma bensì di carrube. Se
in inglese, come si evince, permane la denominazione locust tree (albero delle locuste), in
tedesco il carrubo prende il nome di albero di San Giovanni e i suoi frutti di pane di San
Giovanni.
Il collegamento con la religione Cristiana mi affascina e fa lentamente decadere le mie
certezze sul rapporto unico tra Sicilia e carrubo. Nel Vangelo secondo Matteo 3, 1-12 si
legge: “In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea,
dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Il deserto della Giudea è
un deserto che si estende nello stato d’Israele e in Cisgiordania, in particolare tra la zona
orientale di Gerusalemme e il Mar Morto. 

Il paesaggio non mi sembra molto differente da quello ragusano mostrato in precedenza
e gli alberi sono, senza ombra di dubbio, dei carrubi.
E allora ritorno con la mente alla Sicilia e mi viene in mente una leggenda, fortemente
creduta dalla popolazione Siciliana, riferita al Duomo di Monreale. Si racconta che
Guglielmo II, grande devoto della Madonna, un giorno si trovasse a Monreale. Stanco
delle sue fatiche, si appisolò ai piedi di un carrubo. Nel sonno gli apparve la Madonna, la
quale gli disse che proprio in quel punto, sotto le grandi radici del carrubo, vi fosse
nascosto un tesoro. Una volta sveglio, il re ordinò subito di sradicare il carrubo. Fatta
una buca profonda apparve veramente il tesoro. Vennero così chiamati i migliori
architetti e mosaicisti e si diede inizio ai lavori che portarono alla realizzazione del
Duomo di Monreale. Da qui nasce la credenza che nelle vicinanze o sotto le radici di
ogni carrubo ci sia davvero un tesoro: “a truvatura” in dialetto siciliano. Dietro un’altra
storia popolare nasce invece un detto, ancora in uso in molte zone della Sicilia:
“c’appizzau u sceccu e i carrubbi/carrui” ossia che si è perso tutto ciò che si aveva e
niente è rimasto.

Con sorpresa ricordo che il succo di carrube, chiamato in arabo Kharoub, è considerato
come una bevanda perfetta da consumare nei giorni caldi ed è tradizione berla durante
il Ramadan.
Nel 1962, Moshe Bejski decide di creare il “Giardino dei Giusti” a Gerusalemme. È un
luogo dedicato a tutti coloro i quali, pur essendo di altra religione, hanno salvato degli
ebrei durante il nazismo. Per ogni Giusto è stato piantato un albero di carrubo. Ad oggi
sono presenti 734 Giusti di nazionalità italiana. Per tale ragione, il carrubo simboleggia
la pace e l’altruismo ed è anche simbolo della religione ebraica.
La meraviglia di questi intrecci culturali e la presa di coscienza mi hanno fatto
comprendere quanto sia stato importante per Souleymane quell’incontro con le radici
della sua identità. È stata una sorpresa che gli ha donato serenità ed ha riequilibrato il
suo stato d’animo fortemente frastornato. Sono stata la sua insegnante per quasi un
anno e molte sono state le volte che abbiamo ricordato quel momento. I suoi progressi
linguistici gli hanno permesso di descrivere meglio le sue sensazioni e i suoi ricordi. Mi
ha raccontato della sua infanzia trascorsa con la comunità nomade dei Beduni e i giochi
che faceva con altri bambini. Giochi fatti con pietre e quīrāt, carati in italiano, cioè i semi
della carruba. Per lui, l’aver ritrovato il carrubo è stato come sentire di trovarsi nel
posto giusto.

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