Berlino Ovest, ricordi di serate di quarant’anni fa

Mentre ci bevevamo la terza, o forse la quarta bottiglia di vino da poco, Hans Joachim, soprannominato Chefchaot, il sovversivo numero uno, pose la grande domanda: come c’immaginavamo di «risolvere il problema del potere a Berlino Ovest». Problema del potere? Quale problema del potere? Hans Joachim aveva lanciato il tema nel gruppo di amici, quella sera in una stanza tra giovani a Berlino Ovest, con un sorriso sulle labbra, ma la sua domanda non era retorica. Con un provocante scintillio negli occhi, ci guardò uno dopo l’altro. Tra noi tutti era quello con più esperienza politica, un bel ragazzo con i capelli corti. Gli bastava prendere in mano un megafono a una dimostrazione per acquistare un carisma straordinario. Il governo di Berlino Ovest è alla fine, disse; che lo vogliamo o no, dobbiamo prepararci all’eventualità che il potere ci cada in mano, che ci sia offerto sul vassoio argentato dalla classe dominante ormai in preda alla confusione.

Noi tutti del gruppo d’amici ascoltammo confusi, eppure il suo scenario non ci appariva assurdo: all’ultima dimostrazione contro la guerra in Vietnam secondo i nostri conti erano scese in piazza più di diecimila persone.
A sorpresa, la questione del potere divenne tema di discussione, quella sera tra noi giovani in una stanza d’appartamento a Charlottenburg. Smettemmo di discutere sulla probabilità della nostra presa del potere. Cominciammo subito a dividerci le cariche: come borgomastro scegliemmo un compagno assente quella sera. Hans Joachim ebbe il comando della Polizia, Bernhard, il maniaco dei libri, allora l’unico marxista-leninista tra noi, avrebbe dovuto rivoluzionare scuola e università. Kajo, appassionato di teatro, avrebbe dovuto spazzar via con una scopa d’acciaio Opere e Teatro e portarci cartelloni rivoluzionari. Il piccolo Manfred avrebbe avuto le Finanze, e io, soprannominato «il poeta», avrei avuto il dicastero della Cultura.

In un attacco di spirito piccolo borghese, chiesi a Hans Joachim come si immaginava, concretamente, la presa del potere. I partiti di Berlino ovest si sarebbero dissolti nell’aria? La Polizia e i servizi segreti avrebbero prestato giuramento alla nostra Repubblica dei Consigli? E gli alleati occidentali? Ecco le domande sbagliate, rispose Hans Joachim: «Troppo concretizzanti»: secondo lui la questione era la prospettiva di lungo periodo. E se poi andrà in un altro modo, se le forze del vecchio ordine alla fine vinceranno, potremo sempre proclamare il nostro scenario un happening.

Ricordi di serate di quarant’anni fa a Berlino Ovest. Certo, mai come allora nella storia recente della Germania ci fu un movente migliore per la rivolta di una generazione contro la generazione dei suoi genitori. Bastava un’occasione, un pretesto, per far esplodere la diffusa diffidenza contro lo Stato in cui decidevano anche gli ex nazisti. L’occasione fu la guerra in Vietnam, e la rabbia perché la stessa nazione che aveva liberato i tedeschi dal nazismo e portato loro la democrazia bombardava un popolo con il napalm e chiedeva l’appoggio dello Stato-erede del Terzo Reich a questa politica. L’occasione locale fu l’assassinio del giovane studente Benno Ohnesorg, ucciso dai proiettili d’un poliziotto durante una manifestazione contro una visita dello Scià, e insieme il fallimento costante dei Quattro poteri a Berlino Ovest: polizia, governo, giustizia, stampa dominata dal gruppo conservatore Springer.

Eppure, il movimento studentesco finì male, per esaurimento, per colpa sua. Fu così perché la rabbia giovane e giusta volle imporsi nel salotto buono e sulla tribuna dei movimenti di liberazione con una «neolingua». Questa «neolingua» in verità si nutriva sempre più dei polverosi lessici del marxismo-leninismo, modernizzato dall’onnipresenza del Grande Presidente cinese. La protesta contro politici e funzionari incapaci e macchiati dal passato nazista si trasformò in protesta contro «il Parlamentarismo», «il sistema dei maiali». La rivolta fu ribattezzata «rivoluzione»; indignazione e rabbia contro le ingiustizie divennero «odio di classe». Padri e madri furono ridotti a «borghesia» o «generazione nazista». La cosa decisiva, comunque, fu che i nuovi-vecchi concetti dei dispensatori di coscienza politica furono inghiottiti acriticamente e fatti propri, e riprodotti e ridiffusi, da giovani ben volenterosamente disposti a recepirli. L’effetto d’intimidazione del Gruppo giocò allora un ruolo importante. Nessuno ammetteva volentieri di capire solo a metà la «neolingua». Pochi ebbero la consapevolezza di dichiararla appassita e fuori moda. Così il movimento perse la sua innocenza, il suo fascino e la sua sfrontatezza, quando fece propria la lingua aliena rivoluzionaria.

Il movimento trovò le sue migliori espressioni negli slogan contro i baroni delle università, nella protesta contro l’autorità, contro la guerra in Vietnam e nella solidarietà emozionale con i movimenti di liberazione del Terzo mondo. Con quegli slanci iniziali non poteva realizzarsi una rivoluzione, ma un rinnovamento culturale durevole della società. La più importante conquista del ‘68 in Germania resta l’esser riuscito a spezzare la cultura dell’obbedienza. Il suo peccato più grande fu che i suoi leader, dopo un inizio da democrazia di base e libertario, approdarono a una dottrina antidemocratica e chiusero gli occhi davanti alla realtà dei loro modelli, Cuba, Vietnam, Cambogia, Cina.

Ma mentirei se non ammettessi che senza un po’ di follia e di auto sopravvalutazione, questa ribellione non ci sarebbe stata. Non c’è ribellione senza follia. Possiamo solo congratularci sia con la società sia con noi stessi, per il fatto che noi giovani non avemmo mai una reale possibilità di prendere il potere. Per fortuna nuove forme di vita e comunicazione, idee che sotto sotto il movimento portava con sé, hanno mostrato una forza ben maggiore dei programmi dei leader di allora. Dallo scontro tra una democrazia importata e contagiata da personalità politiche compromesse col nazismo e un movimento di protesta radicale, poi totalitario, è nata alla fine la società civile di gran lunga più vivace nella storia tedesca.

 

(Dal libro «Rebellion und Wahn» – Ribellione e follia -, editore Kiepenheuer & Witsch, Berlino, 2008)

Peter Schneider

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