“La vita sarebbe infinitamente più felice se nascessimo a ottanta anni e ci avvicinassimo gradualmente ai diciotto” sosteneva Mark Twain. E pare che Francis Scott Fitzgerald fosse al corrente di quest’opinione del collega scrittore, quando nel 1921 pubblicò il racconto che porta il titolo del film di David Fincher da oggi nelle sale italiane. Ma mentre il personaggio letterario è protagonista di una storia grottesca, ironica e a tratti comica, il Benjamin Button di celluloide non ha nulla in comune con lui se non nome, cognome e segni particolari. A descrivercelo nel film è una signora in punto di morte dai cui lineamenti raggrinziti e sciupati riconosciamo a mala pena il viso di Cate Blanchett. Su un letto d’ospedale, nella New Orleans del 2005 che sta per essere investita dalla furia dell’uragano Katrina, l’anziana Daisy si sente in dovere di svelare alla figlia alcune importanti verità sul loro passato. E lo fa attraverso il diario di un uomo misterioso, che racconta del suo “curioso caso”: una vita dal corso straordinario. La voce di Brad Pitt (che nella versione originale sfoggia un marcato accento del sud) narra in prima persona di un neonato venuto al mondo con tutti gli acciacchi di un ottantenne, abbandonato dal padre sull’uscio di un ospizio per anziani e raccolto da Queenie, la governante di colore che ne ha pietà e lo alleva come fosse figlio suo. Della sua infanzia-vecchiaia vissuta tra anziani veri, da bambino nel corpo di un vecchio. Dei giochi coi soldatini e delle scoperte dell’infanzia fatte da una sedia a rotelle. Degli innumerevoli addii ai compagni di ospizio morti di vecchiaia, mentre lui anziché invecchiare ringiovanisce.
Ma non ci si abitua mai alla perdita delle persone care, specialmente se si ha la consapevolezza di vivere in un corpo le cui lancette vanno irrimediabilmente a ritroso rispetto a quelle di tutti gli altri. Così Benjamin è ancora un bambino, ma ha l’aspetto di un settantenne quando conosce Daisy, l’amore della sua vita, che ha appena sei anni. E da quel momento in avanti, il loro sarà un continuo sfiorarsi e perdersi, fino a ritrovarsi “a metà strada”, un uomo e una donna nel fiore degli anni le cui vite viaggiano in direzione diametralmente opposta.
Il curioso caso di Benjamin Button è senza dubbio un capolavoro di tecnologia: il trucco e gli effetti speciali che contribuiscono a rendere Brad Pitt credibilissimo sia da ottantenne che da adolescente varrebbero già da soli i 150 milioni di dollari che sono stati investiti sulla pellicola. Ma il film di David Fincher va ben al di là di un software miracoloso e un blue screen. Sullo sfondo di cieli grigi, di albe e tramonti sull’acqua, di città innevate e mari in tempesta, nella penombra della hall di un albergo nel bel mezzo della notte, nella nebbia che avvolge New Orleans mentre Daisy danza solo per Benjamin alle note di una musica che è solo nel suo cuore, ci sono uomini e donne in carne e ossa, vulnerabili e destinati a finire, da cui occhi traspaiono impotenza e frustrazione autentiche, vibranti. C’è un Brad Pitt pienamente meritevole della nomination all’Oscar come miglior attore protagonista (“Oltre ad essere molto bello, è anche molto bravo. Ma questo è meglio che non si sappia in giro” ha rivelato Fincher in un’intervista) e Fincher non sarà il favorito per la corsa alla miglior regia, ma il suo film non è affatto fuori posto, accanto a Milk e a The Millionaire, tra i cinque possibili migliori. E se anche lo sceneggiatore Eric Roth durante le quasi tre ore del film ci fa venire in mente, di tanto in tanto, il suo precedente capolavoro, Forrest Gump, felici di ammetterlo, certi della abissale differenza di atmosfera, tra i due film (se Forrest Gump può essere considerato una “rilettura sentimentale” di buona parte della storia degli Stati Uniti, Benjamin Button viene appena sfiorato dalla Storia con la S maiuscola – la sua madre adottiva è una afro-americana, ma della questione razziale nemmeno l’ombra, e l’uragano Katrina è simbolo della transitorietà delle cose terrene, più che un vero riferimento al passato recente).
È davvero preferibile vivere a ritroso? Benjamin ci dice di no. E non servono fiumi di parole per spiegare quello che gli occhi di Brad Pitt, immutabili e inconfondibili anche sotto chili di trucco, riescono a sussurrare in pochissimi fotogrammi. Eppure lui è come noi, la sua storia d’amore è come tutte le altre, perennemente segnata dagli spettri della delusione e della fine che si avvicina. E per quanto Mr. Daws, uno dei più longevi inquilini dell’ospizio, possa ripeterci “Ti ho mai raccontato che sono stato colpito da un fulmine sette volte?” (pretesto che Fincher usa per inserire brevissimi quanto deliziosi spezzoni in stile cinema muto che mostrano la scena), per poi ammettere, vicino alla fine, “Ma Dio mi ricorda che sono fortunato ad essere ancora vivo”, il film non può fare a meno di suggerirci l’idea che ogni felicità è transitoria, che niente dura. Salvo poi mostrarci un filo di speranza, incarnata da Daisy e dal suo amore per Benjamin, che, quando lui è ormai un bambino, confuso e senza più memoria di ciò che ha vissuto, la vede, anziana, prendersi cura di lui fino alla sua morte, da neonato. Il tempo ha un effetto irreversibile su ognuno di noi, nessuno escluso, sembrano urlare le pagine scritte da un uomo che nonostante tutto riesce a smascherare il tempo e a svelarne i trucchi meglio di chiunque altro. Non c’è un momento giusto per vivere qualcosa ma tanti momenti il destino ci mette a disposizione perché ne facciamo tesoro.
Perché la nostra vita è definita dalle opportunità, anche da quelle che perdiamo.
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