Mentre il sole tramonta definitivamente alle loro spalle, gli attori fanno il loro ingresso sul palcoscenico, inusuale e inedito per la rappresentazione di una tragedia. Il palco, costituito da una panchina, i due altari delle dee Artemide e Afrodite e una scala luogo di morte, è la rappresentazione dei simboli che danno vita all’intreccio fra antico e moderno, volto a descrivere l’ineludibile destino dell’uomo: la morte. Nel cortile interno del Monastero dei Benedettini, venerdì 19 luglio alle 21, è andato in scena Ippolito di Euripide, regia di Nicola Alberto Orofino e con Egle Doria, Silvio Laviano, Luana Toscano e Gianmarco Arcadipane.
Il regista ha rivisitato la tragedia greca ambientandola nell’America maccartista degli anni ’50, in cui ogni azione fuori dal coro era un crimine e in cui la sessualità, considerata lecita solo quella familiare, si svolgeva in un clima di stampo vittoriano. La tragedia – in cui i quattro attori interpretano tutti e nove i personaggi euripidei – ha cercato di mettere in mostra i nostri lati oscuri, le nostre passioni più profonde e, al tempo stesso, indicibili e mortali; ed è proprio la passionalità, sinonimo di morte, che permette alla trama di svolgersi.
Unità e molteplicità sono le parole chiave che enucleano i personaggi. Afrodite (Luana Toscano), che da dea dell’Olimpo si trasforma in una attempata signora afro-americana, tesse la vendetta contro Ippolito (Gianmarco Arcadipane), figlio del re di Atene Teseo, colpevole di essere casto e devoto fedele di Artemide, dea della caccia e della castità. Ma la vendetta di Afrodite colpisce la regina di Atene, Fedra (Egle Doria), accecata dalla passione per Ippolito. La regina si presenta sul palcoscenico in preda a un’atroce sofferenza per il suo amore impossibile, un amore segreto e inconfessabile, che la porterebbe alla rovina e al disonore, suo e della sua famiglia.
Dopo avere consumato – in peccato – con Ippolito la regina decide di suicidarsi, non prima di averlo accusato di violenza sessuale, per riparare alle offese subite da Ippolito. «L’infelicità è il mio destino», grida Fedra prima di morire. Lo stesso destino che condurrà Ippolito alla morte in seguito alle accuse del padre Teseo, che lo esilia da Atene per avere disonorato il suo letto e avere tradito la sua fiducia.
Ippolito, personaggio inamovibile ed emblema del conformismo americano, tenta di difendersi dalle accuse del padre non per umanità verso Fedra, ma per amore del suo onore e la sua reputazione, che troveranno la fine nel suo stesso suicidio. Notizia che porterà Teseo a un senso di colpa infinito per non aver riconosciuto la vera innocenza del figlio. La tragedia, da sempre profonda introspezione dell’animo umano, ci pone di fronte interrogativi senza tempo che non possiamo eludere, e se «per gli uomini è inevitabile soffrire» non resta che chiedersi quale sia il nostro destino.
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