Bellocchio: psiche, impegno, immagine

Lo va dicendo negli incontri col pubblico e nelle interviste, quando gli propongono il confronto con il regista del Caimano:  “Ci sono due differenze fondamentali tra me e Moretti: lui parte dalla parola, io cerco un’altra strada e do il primato all’immagine; lui ha una visione del mondo cupa e disperata, io credo di andare dalle tenebre verso la luce. Mi piace vedere la possibilità di un movimento…”.

 

A 41 anni dall’esordio, Marco Bellocchio non è solo il “maestro”, egli rimane uno dei talenti più promettenti del cinema italiano perché ci offre gli esiti di una ricerca in atto. Si tratta  della ricerca di un’estetica cinematografica che rifiuta il realismo per l’invenzione di immagini che siano rappresentazioni, che abbiano affinità col sogno sebbene non siano riproduzioni di sogni, immagini come espressioni di creatività inconscia. Una creatività che gli permette di muoversi con assoluta leggerezza e trascinare con sé gli spettatori dal piano della narrazione romanzesca a quello della fiaba, dal piano della storia a quello dell’immaginazione poetica. Ci è riuscito persino prendendo spunto dal caso Moro in Buongiorno notte,  quando, come accadeva agli artisti del passato, ha utilizzato un soggetto dato come pretesto per una rappresentazione il cui senso trascende la ricostruzione della vicenda reale.

 

Ma per accostarsi con autentico interesse all’opera di Bellocchio non si può prescindere dal suo “impegno”, dal nesso tra arte e vita di cui lui parla sia nei colloqui col pubblico o con la stampa, sia quando trasfigura la propria esperienza facendone materia dei suoi film. Di questo impegno è parte fondamentale la partecipazione ai seminari in cui Massimo Fagioli, lo psichiatra dell’analisi collettiva, svolge attività terapeutica, di formazione e di ricerca.  E’ nota la vicenda del rapporto tra il regista e lo psichiatra, vicenda che, rifuggendo dall’ignavia di tanti commentatori, andrebbe guardata con attenzione, a partire dai tre film frutto della loro collaborazione: Diavolo in corpo, La Condanna, Il Sogno della farfalla.

 

E’ infatti difficile capire il Bellocchio di oggi senza riandare al grido della protagonista di Diavolo in corpo, la splendida Maruschka Detmers, che fugge dallo studio dello psicanalista. Parte da lì il rifiuto dell’ideologia dell’inconscio originariamente perverso, della rassegnazione, dell’impossibilità di cura e trasformazione di sé che ritroviamo nella vicenda di Franco Elica e della bella principessa ne Il regista di matrimoni. Ed è altrettanto difficile comprendere la possibilità stessa di creazione di immagini che hanno radice nell’irrazionalità dell’inconscio senza riandare al Sogno della farfalla, a quell’invenzione particolarissima di un “ragazzo che non parla”, che fa una ribellione non violenta nei confronti del linguaggio convenzionale e si esprime solo con le parole dei poeti, rivendicando il primo anno di vita, quando non c’è coscienza ma c’è pensiero perché ci sono immagini e affetti: l’identità umana della nascita.

 

Se oggi Bellocchio continua a offrirci le sue creazioni, le provocazioni della sua immutata vis polemica contro la Chiesa cattolica e contro le ideologie e le istituzioni che rifiuta, ma anche la sua realizzazione umana, è forse il caso di accostarsi alla sua arte senza mettere in ombra nulla dell’esperienza da cui trae vita.

Tratto da “La Sicilia”, 8 maggio 2006, p.9

Vincenzo Bonaccorsi

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