Non preoccupatevi: non si tratta di un falso. La circolazione di “Bella ciao”, durante la Resistenza, è documentata. Tuttavia essa risulta per lo più circoscritta alle zone del reggiano o attorno a Bologna. E in generale fu cantata pochissimo, a vantaggio soprattutto di un’altra canzone, “Fischia il vento”, riconosciuta nell’immediato dopoguerra come il canto della Resistenza per antonomasia e come l’inno semi-ufficiale delle “Brigate Garibaldi”.
C’erano anche molte altre canzoni abbastanza popolari, seppure non in linea con la componente comunista. Come “La Badoglieide”, ironica, sarcastica, del tutto irriverente nei confronti del re e del suo primo ministro ex fascista: ” O Badoglio, o Pietro Badoglio / ingrassato dal Fascio Littorio / col tuo degno compare Vittorio / ci hai già rotto abbastanza i coglion”; o come l’altra – “Pietà l’è morta” – scritta da Nuto Revelli. Lo scrittore Beppe Fenoglio, nel Partigiano Johnny, la definisce come una “vera e propria arma contro i fascisti”. E in effetti il verso finale “Tedeschi e fascisti fuori d’Italia!”, scandito sulle note di un’aria della Prima guerra mondiale, ha un timbro abbastanza impressionante e una qual certa solennità.
Ma torniamo a “Bella ciao”, semi sconosciuta. Come e quando cominciò a diventare popolare? Siamo ormai a quasi vent’anni dalla conclusione della guerra. In quel periodo dei primi governi di centro-sinistra si compie quella che Cesare Bermani, autore di uno studio pionieristico sul canto sociale in Italia, riprendendo il concetto da Hobsbawm chiama “l’invenzione di una tradizione”. Accade cioè che “Bella ciao”, cantata durante la Resistenza soltanto da sparse formazioni emiliane, venga sempre più frequentemente preferita nelle manifestazioni ufficiali alla ben più consueta “Fischia il vento”.
E perché mai? “Fischia il vento” aveva molti “difetti”. Innanzi tutto la musica. Visto che il testo era stato innestato sull’aria di una canzonetta sovietica, composta nel 1938 da Michail Isakovskij e Matvei Isakovic, nella quale si parlava dell’amore per la bella Katiuscia di un soldato impegnato a difendere “la sua terra e la sua patria”. Ma ben più imbarazzanti erano gli espliciti riferimenti socialisti e comunisti: “Fischia il vento, infuria la bufera, / scarpe rotte eppur bisogna andar, / a conquistare la rossa primavera, / dove sorge il sol dell’avvenir”. Passi per “il sol dell’avvenir”, tipico della vecchia simbologia socialista. Il guaio era che la primavera di cui si parlava nella canzone fosse incontestabilmente rossa; quando al massimo, coi governi di centro-sinistra, poteva tollerarsi il rosa pallido.
“Bella ciao”, al contrario, era assai più politically correct. Poco importava se molti partigiani del Nord non se la ricordavano affatto. Infatti, col suo riferimento all’ “invasor” di memoria risorgimentale – e solo a quello – la canzone poteva andare benissimo non solo al Partito socialista, appena approdato al governo, ma anche alla Democrazia cristiana e persino alle Forze armate. Siamo più o meno al ventennale della Resistenza, cioè nel momento in cui la Resistenza si “tricolorava” come non mai, diventando il fondamento della “Repubblica nata dalla Resistenza”. Le associazioni partigiane, protese nel massimo sforzo di ricerca di strumenti di unificazione, aderirono (sia pure con qualche opposizione della base) a questa definitiva conciliazione tra le varie anime della Resistenza, che trovò il proprio inno in “Bella ciao” in sostituzione di “Fischia il vento”.
Inoltre ci fu un dettaglio di non poca importanza. Giovanna Daffini, una mondina e cantastorie, cantò davanti al microfono di Gianni Bosio e Roberto Leydi (ricercatori di musica popolare) una “Bella ciao” nella quale ai noti versi del partigiano che ha “trovato l’invasor” era sostituita la descrizione di una giornata di lavoro delle mondine. Non parve vero di aver rintracciato l’anello di congiunzione fra un inno di lotta, espressione della coscienza antifascista, e un precedente canto di lavoro proveniente dal mondo contadino. Nonostante qualche incongruenza e qualche sospetto, la versione venne accettata e il Nuovo Canzoniere Italiano nel 1964 partecipò al Festival di Spoleto con uno spettacolo dal titolo “Bella ciao”.
Questa “versione delle mondine” era davvero attendibile? No. Nel maggio del 1965 arriva una lettera all’Unità. La scrive Vasco Scansani, da Gualtieri, lo stesso paese della Daffini. Dice di essere lui l’autore della “Bella ciao” delle mondine, e di averla scritta nel 1951, basandosi sulla versione partigiana. Dice che la Daffini gli ha chiesto le parole, nel 1963. Allarmatissimi i ricercatori del Nuovo Canzoniere Italiano interrogano Scansani e la Daffini e parte un nuovo studio. Si individuano tracce di “Bella ciao” in vari canti popolari, non si esclude che fossero parte anche del repertorio delle mondine, ma non c’è dubbio che la versione della Daffini è posteriore alla “Bella ciao” dei partigiani. E infine, nel 1974, saltò fuori un altro preteso autore di Bella ciao, ma di una versione del 1934. E’ Rinaldo Salvadori, ex carabiniere, che avrebbe scritto una canzone, “La risaia”, per amore di una ragazza marsigliese che andava anche a fare la mondina. Il testo, con versi come “e tante genti che passeranno” e “bella ciao”, glielo avrebbe messo a posto Giuseppe Rastelli, futuro autore di “Papaveri e papere” (politicamente più nero che rosso), ma la Siae dell’epoca fascista ne avrebbe rifiutato il deposito.
A questo punto la vicenda delle origini della canzone si è fatta troppo ingarbugliata e non vale più la pena di seguirla in dettaglio. Cosa se ne impara?
Si può capire che in Italia, pur in presenza di un movimento partigiano tra i più estesi d’Europa, e che ha prodotto canzoni bellissime perché le canzoni sono sempre compagne delle lotte popolari, è stato particolarmente difficile avere un unico “inno” della Resistenza antinazista e antifascista. In Italia, patria del fascismo, fu difficile sintetizzare in una sola canzone un momento storico che racchiudeva in sé una guerra di liberazione, ma anche una guerra civile e una guerra di classe.
Nulla di paragonabile alla “marsigliese della resistenza” dei francesi: “Les Partisans: chant de la Libération”, creato nel 1943 a Londra e poi reso popolarissimo dalla magnifica interpretazione di Yves Montand. Il testo della canzone dei partigiani francesi è degno delle tradizioni rivoluzionarie di quel Paese e colpisce oltre che per il radicalismo dei riferimenti sociali – Ohé partisans Ouvriers et paysans/ C’est l’alarme! – anche per la risolutezza dell’invito alla lotta armata: “Camarades./Sortez de la paille / Les fusils, la mitraille, / Les grenades. / Ohé! les tueurs / A la balle et au couteau / Tuez vite! / Ohé! saboteurs / Attention à ton fardeau /Dynamite”.
Eppure tra i francesi un canto così cruento fu accettato nella sua rappresentazione simbolica del riscatto nazionale e non è mai stato seriamente contestato. Mentre in Italia una canzone particolarmente mite come “Bella ciao” ha continuato a lungo ad apparire come “di parte”. Tanto proterva è stata l’avversione a riconoscere il merito storico di quei ribelli (banditen) che tra le macerie di una guerra perduta si sono battuti per ridarci la dignità di un popolo nemico delle tirannie.
Perciò direi che poco importa se l’origine di “Bella ciao” è così controversa. Essa rimane la canzone più unitaria della nostra Resistenza e oltretutto si è conquistata una notorietà internazionale, al punto che se ti metti a canticchiarla in una qualsiasi città d’Europa chiunque ti sorride riconoscendoti per italiano. Personalmente non è che mi piaccia molto tutta questa storia del seppellimento, del fiore sulla tomba e dei connessi saluti cimiteriali da parte dei viandanti. Ma il tono è stranamente allegro. E il primo verso – “stamattina mi sono alzato” – continua a riempirmi di orgoglio. Sono infatti convinto che allora, tanti anni fa, ci rialzammo in piedi con dignità e con coraggio.
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